Erano gli anni ’90 quando a Londra stava emergendo con forza, in un gruppo noto come Young British Artists, l’artista Tracey Emin. A quel tempo era solita girare per le strade della città inglese con una grande borsa piena di blocchi di schizzi, confezioni di Marlboro Lights, birre Stella Artois e brandy. Le prime installazioni che l’hanno portata nell’immaginario pubblico come una tra le più influenti artiste visive sono state Everyone I Have Ever Slept With (1963-1995), una tenda all’interno della quale aveva ricamato i 102 nomi di amanti, familiari e due feti abortiti numerati – parte dello spettacolo seminale Sensation del 1997 a Londra – e My Bed (1998), una ricreazione della sua vita dopo un crollo psicologico post-rottura, completa di lenzuola sporche, bottiglie di vodka vuote e biancheria intima spalmata di sangue mestruale. Il suo corpo nel corso della sua pratica è stato testato in tutte le sfaccettature emotive e affettive. Emin torna a New York dopo sette anni con Lovers Grave (letteralmente, tomba degli amanti) alla White Cube, l’interessante galleria di Londra che la rappresenta aprirà questa volta sulla Madison Avenue.
“Il bello della parola arte è che arte è una parola come amore, Dio o altro. Trascende così tante cose.”
La mostra presenta 26 opere, che vanno da enormi tele raffiguranti coppie in preda all’amore, a quadri più piccoli e striati di figure allineate davanti a lapidi, a un busto di Nefertiti, l’antica regina egizia. L’artista presenta nuove domande sul tema dell’intimità: cosa significa morire tra le braccia di qualcuno che ami? Immagini che riportano alla mente i resti delle coppie immortalate nella famosa eruzione di Pompei. Il lavoro di Emin orbita sempre sull’esplorazione di se stessa, in tutte le sue incarnazioni tristi, voluttuose, selvagge e furiose. Il corpo è campo di sperimentazione e di indagine verso i temi dell’affettività; è il materiale di partenza da dove attingere per comprendere il mondo. I temi dell’amore, del desiderio, della perdita e del dolore in Lovers Grave non sono solo raccontati per creare opere disarmanti e spudoratamente emotive, ma sono una vera e propria manifestazione extracorporea. Se, infatti, la pratica di Emin ha sempre spaziato dal disegno alla pittura, al cinema, alla fotografia, al cucito, alla scultura, al neon e alla scrittura, negli ultimi anni si è concentrata maggiormente sulla pittura, a causa di una malattia potenzialmente letale che ha colpito nel profondo la vita dell’artista, producendo un forte impatto anche sulla sua visione artistica.
“Tutto il mio corpo desidera essere abbracciato. Desidero disperatamente di amare ed essere amata. Voglio che la mia mente fluttui in quella di qualcun altro. Voglio essere liberata dalla disperazione grazie all’amore che provo per qualcun altro. Voglio essere fisicamente parte di qualcun altro. Voglio essere unita. Voglio essere aperta e libera di esplorare ogni parte dell’altro, come se stessi esplorando me stessa.”
Il concetto di Lovers Grave trae origine da immagini di siti archeologici, resti umani che si stringono l’uno all’altro, apparentemente chiusi in un eterno abbraccio amoroso. Il concetto che affascina Emin è quello di devozione eterna tra due persone, anche nell’aldilà, e lo considera uno degli elementi fondamentali della vita. Il tema della resurrezione ha una particolare risonanza nel corpus di lavoro di Emin: il dipinto The Beggining and The end of Everything (2023), dove una figura femminile giace all’interno di una forma poco delineata può essere letta contemporaneamente come un letto, una tomba poco profonda o una vasta topografia di segni. Il motivo de La Morte e la fanciulla, in cui la personificazione della fine si confronta con la vitalità della vita, è un tema prevalente in tutte le opere. In Is Nothing Sacred (2023), la figura supina giace in atteggiamento di supplica, testimoniata da una presenza oscura nella stanza che, per l’artista, è un’apparizione reale. I temi dell’amore tumultuoso si manifestano in opere come There was no Right way (2022), dove gesti vigorosi mettono a nudo i contorni del corpo prima di scomparire in un paesaggio astratto. Piccoli dettagli autobiografici fanno la loro comparsa nell’esibizione come se fossero una costellazione, come in Another World (2023): un busto della principessa egiziana Nefertiti seduto in cima a un mobile nella camera da letto dell’artista o il disegno geometrico di un tappeto persiano. In I went home (2023), Tracey Emin, ci parla ancora della sua vita, presentandoci Margate, la nuova città dove l’artista ha scelto di spostarsi da un anno e dove tutti i suoi progetti di vita si stanno realizzando, tra cui la sua Fondazione Tracey Emin che si dedica a residenze per artisti.
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