Come nei grandi romanzi della letteratura inglese, Saltburn prende il titolo della tenuta in cui si svolge il racconto, un imponente castello in cui sono passati Riccardo III ed Enrico IV, dove continua ad aleggiare il fantasma di una presenza conosciuta. La regista britannica Emerald Fennell dopo Promising Young Women, torna a stupirci con una fotografia anni ’70, dai colori netti e forti, per raccontarci con altrettanta acutezza e ferocia una satira della società inglese. A condurre le tematiche di violenza, morte e sesso del film è, in modo paradossale, le bellezza. In Saltburn l’estetica è tutto, proprio come per i ricchi e borghesi inglesi. Essere attraenti, avere potere: la loro vita e quello che possono fare è travolgente, tanto da fare dell’idealizzazione del bello l’unica strada percorribile.
“Volevo fare un film sul desiderio, su ciò che vogliamo e su come lo otteniamo.”
Oliver Quick (Barry Keoghan) si trova immediatamente coinvolto nel mondo dell’aristocratico Felix Catton (Jacob Elordi), che lo invita a Saltburn per un’estate che sarà indimenticabile. È in questo luogo carico di desideri e di perversione che Oliver troverà il suo posto, nella carne esibita dallo statuario Jacob Elordi che da carnefice diviene lo strumento per raccontare il punto di vista di Oliver, lui che non è né particolarmente bello né sofisticato nei modi. Il nuovo arrivato ad Oxford, viene connotato come lo spettatore sin dal primo incontro con Felix. Il ragazzo è spesso immobile nel buio delle stanze che abita: emerge dall’oscurità, proprio come fosse un ascoltatore in una sala buia, dove basta uno sguardo filtrato da uno schermo, per essere catturato dalla luce emanata da Felix. Si innesca così un processo di feticizzazione che rappresenta l’idealizzazione della star da parte dei fan, che si condensa visivamente nelle sequenze in cui Oliver ricorda Felix. Tra sfumature gotiche e grottesche questa storia approfondisce tematiche sociali tipiche dell’avant-pop cinematografico contemporaneo – come la disparità di genere – in un continuo gioco di riferimenti tra cinema e letteratura. Il film di Fennell è carico di simbolismi, come il dialogo implicito – a volte interrotto – con l’immaginario di Guadagnino. Impossibile non pensare alle scene di Chiamami col tuo nome quando a Saltburn si trascorre un’estate dedita all’otium e alla scoperta di se stessi. Un luogo fuori dalla città che diventa territorio di esplorazione; sul prato di Saltburn i desideri dei corpi si scontrano per intraprendere forme spensierate e libere da ogni rappresentazione.
A catturare l’attenzione è soprattutto l’atmosfera e l’ambientazione studiata dalla già citata fotografia di Linus Sandgren, complice dell’abilità nel ricreare un intero dialogo con il british heritage che rimanda immediatamente alla ricostruzione dei costumi di Quel che resta del giorno, all’esplosione delle controculture e alle avanguardie underground della moda inglese. Lo scenario gotico e a volte vampiresco ricalca l’approfondimento sull’erotizzazione dei conflitti e sulla sessualizzazione dei corpi, come la scena hot della vasca piena di riferimenti (attualizzazione più spinta), della forma del desiderio espresso da Silvana Mangano in Teorema di Pasolini. All’interno delle camere del castello i corpi di Felix e Oliver si abbandonano a se stessi, ritrovandosi spesso in una saletta per ammazzare il pomeriggio per poi rivestirsi a festa per la cena, con la certezza del fuori: lo sconfinato giardino dominato da un labirinto è chiaramente l’allegoria di tutto il racconto. Il prato di Saltburn è infatti lo spazio dell’immaginazione dove sperimentare, perché è fuori dalle mura domestiche e quindi in assenza di logiche di potere che si può dare alito al cambiamento e alla costruzione – seppur fragile – dell’identità.
Il denaro è tutto e niente a Saltburn ma tutte le persone sono aggrappate a un’identità senza la quale non possono permettersi di vivere.