MANIFESTO

#63

CHANGE OF SPACE

DAYDREAMS

2024.02.05

Testo di Francesca Fontanesi

La mostra alla Fondation Beyeler di Riehen, Basilea celebra il percorso artistico di Jeff Wall, pioniere della metamorfosi fotografica. La vastità di soggetti presente nelle sue opere ci obbliga quasi a cristallizzare la nostra attenzione: i grandi montaggi digitali di Wall richiedono la capacità di un’osservazione minuziosa per essere in grado di digerirne il significato.

Trasportando gli spettatori attraverso paesaggi urbani e suggestioni poetiche, Jeff Wall innalza la fotografia alla più libera forma d’arte. A partire dal 1970, Wall ha esplorato un quantità indefinita di modi per poter ampliare le possibilità artistiche della fotografia: lui stesso ha definito il suo lavoro cinematografico, vedendo nel cinema un modello di libertà creativa e d’invenzione fino ad allora soffocata nella definizione dominante della fotografia come documentaristica. Molte delle sue fotografie sono immagini costruite che coinvolgono una pianificazione e una preparazione particolarmente estese, in collaborazione con comparse e performers: le immagini di Wall si discostano dall’idea di fotografia come fedele documentazione della realtà, ma oltrepassano la soglia. Wall, nato nel 1946 a Vancouver, in Canada, ha iniziato ad interessarsi alla fotografia negli anni Sessanta, all’apice dell’arte concettuale. Dagli anni Settanta ha cominciato a produrre grandi trasparenze montate in lightbox: tramite questo formato, fino ad allora associato più alla pubblicità che alla fotografia, ha inaugurato una nuova forma di esposizione artistica. Nel 1990 circa ha invece ampliato il suo repertorio, prima con fotografie B&W e in seguito con stampe a colori che sono diventate oggetto di numerose mostre personali in tutto il mondo, tra cui la Tate Modern di Londra (2005), al Museum of Modern Art di New York (2007), allo Stedelijk Museum di Amsterdam (2014) e al Glenstone Museum di Potomac (2021). Mentre l’immaginario di Jeff Wall si evolve tra documentazione visiva, composizione cinematografica e licenza poetica, gli spettatori sono costretti a confrontarsi con una vasta gamma di soggetti e di temi ossimorici: bellezza e bruttezza, ambiguità e disagio, naturalezza e artificiosità, povertà e ricchezzarealtà e finzione.

Jeff Wall, Overpass, 2001.
Emanuel Hoffmann Foundation, on permanent loan to the
Öffentliche Kunstsammlung Basel. © Jeff Wall
Jeff Wall, Parent child, 2018.
Courtesy of White Cube. © Jeff Wall
Jeff Wall, The Flooded Grave, 1998–2000.
Courtesy of the artist. © Jeff Wall
Jeff Wall, Boy falls from tree, 2010.
Emanuel Hoffmann Foundation, on permanent loan to the
Öffentliche Kunstsammlung Basel. © Jeff Wall

“Ritengo la fotografia una sorta di medium non-teorizzabile, una costruzione polimorfa, multivocale e multivalente.”

– Jeff Wall

La mostra alla Fondation Beyeler, aperta al pubblico dal 28 gennaio al 21 Aprile 2024, si apre con la giustapposizione di due opere del 1999: Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona e A Donkey in Blackpool. La prima mostra l’interno del Padiglione Tedesco a Barcellona, una struttura a pareti di vetro progettata dall’architetto Ludwig Mies van der Rohe. Lo spazio minimalista è illuminato dalla luce brillante del mattino, mentre in primo piano, un pilastro in acciaio divide quasi a metà la composizione. Oltre al pilastro, attraverso una distesa di tappeto scuro, un custode è intento a pulire una parete vetrata. Mentre la rigorosa forma dell’edificio e i suoi materiali sontuosi trasmettono un senso di lusso, l’apparizione del custode richiama l’attenzione ai sistemi di supporto necessari per mantenere la visione artistica di Mies, caratterizzata dal principio less is moreA Donkey in Blackpool cattura invece una stalla, uno spazio apparentemente modesto ma visivamente ricco, occupato in primo piano da un animale di famiglia in un momento di riposo. L’accostamento delle due immagini unisce mondi sociali e culturali molto differenti, ma attira l’attenzione sulla loro comunanza: sia l’umano che l’animale hanno profonde relazioni con gli interni che li ospitano. Diversi echi risuonano confronti e parallelismi.

Jeff Wall, A Donkey in Blackpool, 1999. Kunstmuseum Basel, acquired with the Government Purchase Loan and a contribution from the Max Geldner Foundation in 2001. © Jeff Wall

“Se vedo qualcosa per strada io non lo fotografo. Posso osservare, oppure andare a caccia di qualcosa, senza però fotografarlo. Così l’evento reale scompare, svanisce come una potenziale fotografia.”

– Jeff Wall

Come nella maggior parte delle opere di Wall, fotografie recenti sono spesso accostabili a immagini più datate. Fallen rider (2022), l’immagine di una donna appena caduta da un cavallo, si avvicina a War game (2007), in cui tre giovani ragazzi, apparentemente catturati durante un gioco di combattimento, giacciono distesi sotto sorveglianza in una prigione improvvisata. In Parent child (2019), una bambina si corica su di un marciapiede sotto l’ombra delicata di un albero, mentre viene contemplata da un uomo, probabilmente suo padre. Come se fossero fotogrammi, le fotografie di Wall sembrano catturare un istante nell’esatto secondo in cui si svolge: il prima e il dopo restano fuori dalla nostra visuale. Maquette for a monument to the contemplation of the possibility of mending a hole in a sock made in 2023 intrappola un’altra figura contemplativa, una donna anziana con un ago da cucito in mano che osserva un buco nel tallone consumato di un calzino viola. La riparatrice appare irreale, lontana, di fronte a noi c’è solo un’apparizione che ci ricorda quel sentimento umano di incertezza che proviamo quando arriva il momento di provare a riparare ciò che è stato usato troppo a lungo, logorato e danneggiato.

Jeff Wall, Milk, 1984. Collection FRAC Champagne-Ardenne, Reims. © Jeff Wall

A Sudden Gust of Wind (after Hokusai) è un’enorme fotografia a colori esposta all’interno di una light box. Raffigura un paesaggio piatto e allo stesso tempo infinito in cui quattro figure in primo piano reagiscono a un’improvvisa folata di vento: ispirata in realtà a una xilografia che è Travellers Caught in a Sudden breeze at Ejiri della serie The Thirty-six Views of Fuji di Katsushika Hokusai, Wall ha fotografato diversi attori in un paesaggio situato poco al di fuori di Vancouver, assemblando poi digitalmente altri elementi per riuscire a ottenere questa composizione. Il risultato è un tableau che pare orchestrato alla stessa maniera di un dipinto classico: come nell’originale di Hokusai, due uomini stringono i cappelli sulla testa mentre un terzo guarda verso il cielo. A sinistra, il corpo di una donna è paralizzato in uno stato di shock, la testa è nascosta dal foulard intorno al viso. Il fascicolo di fogli che teneva tra le mani è stato disperso dalla folata e la loro traiettoria, al di sopra del centro dell’immagine, crea un senso di dinamismo. Due alberi vicini, anch’essi in primo piano, si piegano sotto la forza del vento, e così le foglie si mescolano insieme ai fogli fluttuanti. Nell’immagine di Hokusai, il paesaggio è un sentiero curvo attraverso un’area piena di canne di bambù vicino a un lago che porta verso il Monte Fuji in lontananza: nella versione di Wall, lunghi campi verdi e marroni si affacciano su un canale. Piccole baracche, una fila di pilastri di cemento e alcune tubature evocano l’immaginario comune dell’agricoltura industriale. La natura poco romantica del paesaggio è rafforzata da una piccola struttura fatta di lamiera ondulata in primo piano; e il sentiero su cui si trovano le figure è una solo una strada sterrata che si estende da un lato all’altro. Non c’è alcun senso di connessione tra i personaggi, la cui posizione nel paesaggio appare quasi incongruente. Due di loro indossano abiti eleganti da città, aggravando il senso di spaesamento dello spettatore.

Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993. Glenstone Museum, Potomac, Maryland. © Jeff Wall

Prodotti tra il 1987 e il 2005, i lavori dedicati ai paesaggi urbani incorporano una zona molto ampia delle aree urbane e suburbane di Vancouver. Jeff Wall considera l’urbanistica come un aspetto fondamentale del suo lavoro, permettendogli di esplorare l’essenza delle città, la relazione con le aree circostanti e la natura di uno scenario che fa da sfondo a una rete infinita di eventi che compongono la nostra vita sociale. Tutte queste immagini riuniscono scene realizzate in luoghi interni ed esterni molto diversi, pubblici e privati, scene di gruppi di uomini e donne, di poveri e ricchi, giovani e anziani, sia a colori che in bianco e nero, grandi e piccole, ma soprattutto di molti umori, stati d’animo e relazioni. Tra queste c’è anche After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue (1999-2000), la ricostruzione di una scena tratta da un romanzo del 1952 di Ralph Ellison in cui un giovane afroamericano si nasconde in una stanza sotterranea nel quartiere di Harlem, a New York, per scrivere la propria storia. Il prologo del romanzo è privo di descrizioni dettagliate, eccetto questa: 1.369 lampadine coprono il soffitto della tana del narratore. Partendo da questo dettaglio, Wall immagina nel proprio studio di Vancouver la forma concreta dello spazio metaforico della storia, rendendo visibili anche gli invisibili.

Per Wall, l’arte della fotografia deve essere libera nella sua gamma di soggetti e di processi come tutte le altre forme d’arte, poetica come la poesia, letteraria come il romanzo, pittorica come la pittura, teatrale come il teatro, il tutto con l’obiettivo di essere solo essenzialmente fotografica.

Jeff Wall, After ‘Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue, 1999–2000. Emanuel Hoffmann Foundation, on permanent loan to the Öffentliche Kunstsammlung Basel. © Jeff Wall

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