MANIFESTO

#63

CHANGE OF SPACE

UMAR RASHID

2021.01.07

Portrait YE RIN MOK
Interview BILL POWERS

Rashid esplora le storie di vita della Black Culture, spesso emarginata e omessa dalla documentazione storica.

UR  In un certo senso è un po’ come se vivessi nel Third Stream (in un mix tra musica jazz e classica).
BP  Cosa intendi, è l’opposto del Mainstream?
UR  È un riferimento del mondo jazz, ma credo che funzioni come concetto più generale. In tempi difficili, incoraggio sempre le persone a discostarsi dagli estremi. Conviviamo sempre tra energia positiva e negativa, una è l’estrema destra, l’altra l’estrema sinistra.
BP  È così che cerchi di allontanarti dall’estremismo? È come se ci fossero solo la vita o la morte, ma cosa diresti dei non-morti (di quello che sta nel mezzo)?
UR  Direi che i non-morti sono lʼinconscio dei vivi. Le persone che distruggeranno la grande macchina sono le stesse che l’hanno progettata. Le forze in opposizione che entrano in gioco hanno un potere drastico su tutto il sistema. Non vogliono che il divario si assottigli. Il problema non è il capitalismo, ma quello che la gente fa con la propria ricchezza. Lo scambio commerciale e la smania di ricchezza è un’innata tendenza umana. Se tu coltivi il grano e io sono un pastore, continueremo sempre a barattarci prodotti. È un sistema come un altro. Puoi anche decidere di non farne parte.
BP  Parli di un percorso alternativo che si può cogliere nei tuoi dipinti, in quanto spesso rappresentano una versione romanzata della storia, eventi che non sono mai accaduti. Il tuo lavoro mi ricorda The Handmaid’s Tale o anche Once Upon A Time in Hollywood, dove vediamo narrazioni che sarebbero potute accadere ma che non si sono mai realizzate per diversi motivi.
UR  Cerco di realizzare opere che possano essere esaminate su più livelli. Dando un primo sguardo spesso si nota come protagonista un uomo di colore contrapposto a qualche antagonista coloniale bianco, questo almeno come prima lettura. Ma se scavi un poʼ più a fondo, si svela la duplicità dell’essere umano, dove vedi un uomo nero aiutare lʼantagonista bianco ad opprimere il protagonista nero. Poi, in un’ulteriore lettura, potresti vedere qualcuno che li sabota tutti e tre. La civiltà è disordine. E credo che questo possa rendere il mio lavoro difficile da accettare, ma lo rende anche più interessante. Non ho mai voluto realizzare un oggetto mono-dimensionale, qualcosa che dia allo spettatore la tranquillità di un paesaggio o di una persona spensierata. Cʼè spazio anche per quello, certo, ma non è quello che faccio io. Voglio che la gente veda il mondo per quello che è.
BP  Allora perché non affronti mai come oggetto principale la società contemporanea?

GO HOME, COLONIZER! 2018.

UR  Il contemporaneo è solo unʼestensione del passato, forse ad eccezione dellʼelettronica, le dinamiche interpersonali non sono poi così tanto cambiate da quando abbiamo imparato a coltivare o da quando Prometeo è sceso dal cielo per donarci il fuoco. Qualunque sia il mito o la religione da cui discenda la storia umana è sempre la stessa. Il colonialismo o quello che è successo in Campidoglio il 6 Gennaio 2021 non sono così lontani. È quello che siamo. Ciò che è interessante dellʼEtà Moderna è come la tecnologia abbia eclissato la nostra capacità di fronte alle atrocità che commettiamo, con gli attacchi dei droni o altri sistemi militari avanzati.
BP  Utilizzi l’umorismo nei tuoi dipinti perché altrimenti senza sarebbero troppo crudi?

UR  Storicamente lʼunica persona che poteva prendere in giro il re senza farsi tagliare la testa era il giullare. Quindi, in un certo senso, sto giocando quella parte. Penso che possa essere un ruolo particolarmente difficile per i neri americani. Guarda, per esempio, Dave Chapelle. Dice delle stronzate piuttosto pesanti, ma l’humor rende la verità più appetibile. Chris Rock e Richard Pryor hanno fatto anche questo. I giullari sono molto al passo con i tempi. Vedono la parte politica della corte ma anche i complotti e gli intrighi della gente per strada. Nei miei primi anni da adolescente, ho avuto la mia “fase” gotica, sai cosa intendo… tutti vestiti di nero e ascoltavo musica underground.
BP  Aspetta, eri un gotico che ascoltava gli Smiths e girava tutto triste in motorino?
UR  Già! Non si vedono tanti uomini di colore con questo stile. Mi hanno anche picchiato un paio di volte a Chicago.
BP  E per quasi un decennio sei stato un performer, giusto?
UR  No, ero un rapper, un vero e proprio MC (Master of Ceremonies). Non mi interessava nemmeno il mondo dellʼarte. Ho iniziato nel 1992. Ho pubblicato diversi album. Dovevo andare in tour con i Little Brother nel 1999, ma soffrivo di attacchi di panico, così ci ho rinunciato. Questo è anche un altro motivo per cui vado cauto con le persone, non si sa mai con quale tipo di problema mentale stiano convivendo. E i social media rendono il tutto ancora più spietato.
BP  Com’era la tua musica?
UR  Hi-Fidel è il mio nome da rapper. Mi ha ispirato quella stronzata del Boom Bap anni Novanta. Una volta stavo facendo shopping a Tokyo in questo negozio di dischi a Shibuya e un tizio aveva una lista dei suoi MC preferiti e io ero su quella lista! È stato così strano. So che può essere considerato un cliché o quasi pretenzioso, ma come rapper ero molto più popolare allʼestero che qui in America.
BP  Parli giapponese quasi fluentemente. Non è raro per un nero di Chicago? Voglio dire, non voglio sminuire, solo che la cosa mi ha colpito molto.

UR  Ecco… sembra essere strano, ma, per quanto mi riguarda, non accetto la sconfitta quando mi metto in testa qualcosa. Penso che molte persone si diano per vinte proprio perché sono troppo veloci ad accettare la sconfitta. Se mi dici che non so fare qualcosa, lotto per poterla fare in qualsiasi modo.

BP  La cultura giapponese ha influenzato la tua arte?
UR  Cʼè la filosofia A-un che mi piace molto. Se hai mai visitato un tempio giapponese, ti è forse capitato di osservare la figura di un leone con la bocca spalancata e unʼaltra con la bocca chiusa. Cʼè un tempo per parlare e un tempo per tacere. È un concetto molto buddhista e profetico nella sua semplicità. Mi piace anche la corrente di pensieri del Death before Dishonor che alcuni giapponesi professano. So che sembra un film scadente degli anni Ottanta, ma bisogna ammirare il livello di tenacia, nell’essere così convinti del proprio pensiero. Ti immagini se gli americani vivessero secondo questa filosofia? Speriamo che questa intervista non invogli una chiamata alle armi per i nichilisti violenti!
BP  Mi parli dei tuoi dipinti al The Hammer Museum in questo momento nella mostra Made in L.A.? Cʼè un’opera intitolata The Battle of Malibu. Quando ho sentito il titolo mi sono immaginato i ricchi sotto assedio fuori da Nobu.
UR  La Battaglia di Malibù non è mai avvenuta, naturalmente, ma i Chumash, ossia gli indigeni di quella zona della California, hanno progettato queste barche chiamate Tomol, che erano vere e proprie navi oceaniche. Erano fondamentalmente delle grosse canoe e viaggiavano da qui a Catalina fino alle isole di Santa Barbara, su e giù per la costa. Uno dei loro insediamenti era proprio a Malibù.
BP  Quindi chi sta combattendo nella tua The Battle of Malibu?
UR  I Chumash che stanno arrivando con le loro Tomol, ma dotate di cannoni e stanno facendo fuori alcuni galeoni spagnoli sulla terraferma. Ci sono anche alcuni ragazzi sulle tavole da surf, che so essere a tutti gli effetti polinesiani, ma non è così impossibile che i Chumash li abbiano incontrati ad un certo punto. Inoltre, è sempre Malibù, quindi perché non avere gente che fa surf? Dall’Occidente si è diffusa questa convinzione implicita che se non fosse stato per i coloni europei, gli indigeni non avrebbero mai realizzato nulla, e tutto ciò è sbagliato. E anche se vivessimo ancora tutti nelle capanne, non posso dire che lʼindustria abbia portato più di tanta gioia e benessere sulla terra. Mi piace creare questi scenari ipotetici. Ho passato gli ultimi cinque anni a trattare con lʼOccidente americano. Ci sono stati tanti cambiamenti nell’evoluzione della storia, ma la percezione nei nostri confronti è cambiata di poco. BP Come hai iniziato a coltivare una tale passione per la storia?

YOU DON'T SEE US. BUT, WE SEE YOU. 2020.

Ero uno studente molto abile. La gente diceva sempre: “Oh, Umar, sei davvero intelligente”. E mi chiedevo se mi facevano i complimenti per davvero o se intendevano dire: “Umar, sei davvero intelligente per essere un ragazzo nero”. Una piccola parte di te si meraviglia sempre.

 

– Umar Rashid

UR  Ricordo che da bambino ho vinto dei premi per il National Geographic Bees (contest annuale di spelling). Ero uno studente molto abile. La gente diceva sempre: “Oh, Umar, sei davvero intelligente”. E mi chiedevo se mi facevano i complimenti per davvero o se intendevano dire: “Umar, sei davvero intelligente per essere un ragazzo nero”. Una piccola parte di te si meraviglia sempre. E poi, come americano nero, non ho una vera e propria storia al di là del periodo della mia famiglia negli Stati Uniti. Non so esattamente da dove provenissero i miei antenati africani. Nella maggior parte delle famiglie afro-americane si parla sempre di qualche stupratore bianco o di una vera e propria stirpe di nativi americani. Quindi, per quanto ne so, la mia storia inizia in questo Paese. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Cominciamo prima con le cattive notizie. È una maledizione perché non conosco la tribù a cui appartengo, ma una benedizione perché ora sono libero di scegliere. E pensare a me stesso come una sorta di essere-superiore.
BP  Hai anche un certo gusto nellʼabbigliamento, sia che si tratti di un mantello su misura o di un copricapo in osso di animale molto intricato.
UR  Prendo ispirazione dal Neolitico. Non cʼera una vera e propria civiltà quando eravamo cacciatori e coltivatori. Avresti potuto camminare nella prateria e inciampare sul cranio di qualche alce e decidere di farne un casco per dare una testata al tuo nemico. Cʼè quellʼessenza primordiale in tutti noi.
BP  D’altra parte sembrano quelle cavolate che James Brown indosserebbe per esibirsi.
UR  Sì, ma è anche molto regale. Hai mai visto quel quadro di Napoleone di David? Indossa un mantello da neve leopardato lungo fino al pavimento, incredibilmente tutto ricamato. È proprio questo che sto dicendo. Napoleone mi affascina anche se era un essere umano terribile. Voleva essere il nuovo Cesare.
BP  Hai anche un nuovo lavoro presso la Huntington Library come parte integrante della stessa mostra Made in L.A., vero?

JAGER (AMBROOS VAN PEERE AND LOCAL WOMAN ON A HUNT IN SOUTHERN SURINAME. LATE 18TH CENTURY). 2020.

UR  Volevo parlare della presenza afro-messicana a Los Angeles quando si è insediata per la prima volta. Nessuno che avesse un soldo è venuto qui. Tanto valeva che fosse lʼAustralia. Non proprio le persone più desiderabili, che è quello che proprio ogni Stato vorrebbe quando si creano nuove comunità. Questo è il punto cruciale. Allora ho deciso di scrivere “The World Is Yours”, solo in spagnolo, in cima al quadro. È una reference di Scarface, mi è sembrato divertente associarla alla gentrificazione in America. La scena sotto il testo riguarda il rogo dell’opera missionaria a San Gabriel. Lì ci fu una rivolta fallita guidata dai Tongva nel 1785 contro i missionari spagnoli. Ho immaginato nel mio quadro cosa sarebbe successo se gli indigeni fossero prevalsi! Così vediamo un capitano spagnolo gravemente ferito durante i combattimenti, cullato dal suo aiutante nero che piange per il suo generale. Una specie di sindrome di Stoccolma, mentre i Tongva se ne stanno lì a ridere di lui anche solo per essersi preoccupato del suo oppressore morente. Voglio dire, è una scena forte su cui riflettere.
BP  Ho notato nel tuo studio una specie di mantello in pelle di vacca dove hai dipinto sul retro una scena che sembra quasi una pittura rupestre.
UR  Quando mi sono trasferito per la prima volta a Los Angeles facevo dipinti con borse di Trader Joe’s che incollavo insieme perché mi piaceva la loro texture. Mi piaceva lʼimperfezione della pelle. Tanti artisti famosi ora fanno solo prodotti così.
BP  Qualcuno come David Hammons sta davvero creando qualcosa di nuovo o è tutta una presa in giro?
UR  David Hammons rifiuta davvero tutte le nozioni di ciò che lʼarte può o dovrebbe essere. È una rarità. Lʼho incontrato qualche anno fa. Mi ha fatto distribuire alcune spille Black Lives Matter che aveva fatto lui. Non sono un tipo da slogan, di solito, perché penso tendano a sminuire la causa. Non ci si può focalizzare solo su una piccola parte, bisogna sempre guardare il quadro complessivo. È tutto collegato. Però David Hammons è un genio. Ha avuto il suo momento negli anni Settanta, ma non gliene fregava nulla del successo. È unʼaltra persona che vive nel continuum. Non vive nello stesso mondo in cui viviamo noi. Hammons conosce il suo valore, da non confondere con Hauser & Wirth. Scusa, pessima battuta! Non cʼè nessuna lettera “i” nella parola “worth” (valore)!

Umar Rashid portrayed by ye rin mok.

FROM THE MAGAZINE

KUDZANAI-VIOLET HWAMI

2024.02.19

La pratica artistica di Kudzanai-Violet Hwami si configura come un’indagine intima sull’identità, sulla memoria e sul sottile intreccio tra passato e presente. Le sue opere esprimono un’intrigante ambiguità, in una costante ricerca sui confini delle rappresentazioni visive e delle influenze culturali nell’espressione dell’identità; si sviluppano attraverso una complessa rete di esperienze personali, influenze culturali, viaggi e adattamenti.

MUSE TALK

KYLE STAVER

2024.02.19

Kyle Staver racconta a Bill Powers di come intraprende la sua pratica artistica, intrisa di significati profondi presi in prestito dal mondo fantastico della mitologia. Perseveranza e umorismo caratterizzano in maniera dettagliata il suo lavoro.

TALK

CAMILLE COTTIN

2024.02.19

Il suo sorriso è arrivato sul set prima ancora di lei, ed è subito piaciuta a tutti. Camille è energia trascinante, potente e senza filtri, quasi fanciullesca. I ruoli che sceglie di ricoprire sono spesso caratterizzati da un dualismo. Interpreta donne responsabili, che affrontano con determinazione crisi e dolori, ma con un tocco di ironia e un’anima leggera.

CARSTEN HÖLLER

Ever Höller, Höller Ever

2024.02.19

Carsten Höller ha dato spazio alla creatività facendosi ritrarre a Stoccolma, all’interno degli spazi del suo provocatorio ristorante Brutalisten, e raccontando il suo enorme approccio all’arte della sperimentazione e la sua pratica fantastica evolutasi nel corso dell’esperienza.

BARBARA KRUGER

A Visual Statement

2024.02.19

Barbara Kruger ha sviluppato un linguaggio visivo iconico che spesso attinge dalle tecniche e dall’estetica della pubblicità e di altri media. Sin dagli anni ’70, le sue opere d’arte hanno continuamente esplorato complessi intrecci di potere, genere, classe, consumismo e capitale.  La sua prima mostra personale istituzionale a Londra è in mostra alla Serpentine; per l’occasione MUSE ne esplora i complessi meccanismi artistici.