Mi chiedo se a Sarah Lucas piaccia Bad Religion di Frank Ocean. Mi è sempre piaciuta la parte in cui scambia la benevolenza del tassista per una maledizione. Mi sembra che la scultrice britannica si sia immedesimata nell’amore non corrisposto, nella follia di pregare una superpotenza invisibile, nella ridicolaggine di questi culti personali.
Sarah Lucas ama i giochi di parole, i titoli delle canzoni di Paul Robeson e provocare in maniera abbastanza evidente. Ritiene che le sue sculture falliche siano sempre una forma di appropriazione, lei stessa non ne ha uno. Sa che le sigarette uccidono, ma forse che anche adorare Gesù in croce non è un giusto modo di vivere.
Non riesco a immaginare che Sarah Lucas sia una grande fan di Sam Kinison, le sue battute a volte sfiorano il misogino, eppure la visione che aveva il comico scomparso su Cristo, attraverso la lente di un uomo qualunque, offre una prospettiva terrena che sono certo lei apprezzerebbe nella sua irriverenza. “Credo sia per questo che non si è mai sposato”, ipotizzò Kinison nel suo album comico del 1986. “Nessuna moglie comprerebbe mai la Resurrezione. Certo, lei lo avrebbe visto il venerdì pomeriggio, lui se ne andrebbe con dodici ragazzi del cazzo. Non lo avrebbe più sentito fino a lunedì… Sì, non avrebbe mai funzionato. Ogni titolo di giornale avrebbe scritto: GESÙ DIVORZIA.”
Ho pensato a questo pezzo di stand-up dopo aver visto la sua scultura Jesus was married del 2005. Il punto focale è una lampadina illuminata nella pancia di un secchio metallico, che pende da due cavi elettrici sospesi a un gancio. Il tutto ha una qualità casuale di oggetto ritrovato o, come vi dirà l’artista… “Un vecchio secchio ha più spirito di un secchio nuovo. Ha più carattere.” In questo contesto ha senso la discriminazione sull’età, ma in senso inverso, alla ricerca di una magia simpatica. Personalmente, ogni volta che vedo un appendiabiti in un’opera d’arte penso alla scultura di Man Ray, Obstruction, il suo stormo di gabbiani. È divertente, un po’ stupido, ma in modo accattivante. Qual è il minimo che si possa fare per chiamarla arte? Il minimo artificio. D’altra parte, ci si può anche fare l’occhiolino e spingersi verso l’oblio. I burloni senza pugno finiscono in purgatorio.
“Sono una materia prima. Posso essere costruito bene o male. Nessuno lo farà per me. Quindi dipende da me.”
Una volta John Currin mi ha spiegato come gestisce l’umorismo nella sua pratica. Quando fa ricerca per i suoi dipinti, tutto è possibile e cerca di ignorare l’acida critica interiore e di non tenere a bada la sua immaginazione. Poi, mesi dopo, torna sulla pila di disegni e, se qualcosa lo fa ridere, realizza un dipinto di quella scena, ma eliminando lo scherzo. Mantiene l’umorismo, elimina lo scherzo. Sospetto che Sarah Lucas segua una metodologia simile.
Nel suo studio, ho visto John Currin avvolgere reggiseni intorno a cuscini e metterli in piedi. Assomigliano quasi a maquette di sculture non realizzate di Sarah Lucas. Nel suo caso, l’assemblaggio è presente per offrire indizi sul modo in cui le pieghe del cuscino potrebbero imitare le rughe della pelle che vengono schiacciate dalla spallina del reggiseno. Per Sarah Lucas non esistono controfigure. La figura è creata come manifestazione del suo potere sincretico. Alla fine, siamo tutti solo circostanze di ciò che creiamo.
C’è qualcosa di teatrale nelle sue scenografie, nella loro apparenza effimera, nella fragilità di una frazione di secondo. Un paio di calze da donna affette da rigor mortis. Vale la pena notare che questo irrigidimento postumo delle articolazioni è una condizione che dura solo da uno a quattro giorni. Non è uno stato permanente.
Anche la realizzazione delle sue sculture può racchiudere quella sensazione di fulmine a ciel sereno. Quando realizza il calco di parti del corpo su una modella, Sarah Lucas utilizza uno stampo di scarto che può essere utilizzato una sola volta prima di essere gettato via, così come una prima ballerina indossa le sue scarpette da punta una sola volta durante un’esibizione prima che anch’esse vengano buttate. La rigidità che noi, gente comune, cerchiamo di sradicare dalla nostra attitudine giovane è invece una necessità per un membro del New York City Ballet. L’uso delle scarpe è l’atto che le rende automaticamente obsolete.
Come mi insegnò una volta un Rolfer, ci sono due modi per alleviare il dolore nel corpo umano. Si può attaccare un muscolo stirato, per esempio, in modo prossimale, andando direttamente alla zona lesa, oppure avvicinarsi al tessuto in modo distale, partendo dai bordi del problema e lavorando verso il suo epicentro. Sarah Lucas sembra affrontare il suo soggetto dalla periferia, come una raccolta di simboli evocativi e detriti significativi. Una lettura superficiale rivela riverberi di Hans Bellmer e Eva Hesse, ma la vista è solo un contesto parziale.
Torno ai titoli di Sarah Lucas: Prayer in the square , Christ you know it ain’t easy. Mi hanno fatto pensare a una parabola della filosofa religiosa Simone Weil: “Due prigionieri separati da un muro comunicano con colpi sul muro. Ciò che separa, unisce. Il mondo separa da Dio. Ma è anche mezzo di comunicazione con Lui.” Si potrebbe giungere a una conclusione simile sul rapporto tra l’artista e lo spettatore, sulla distanza tra il creare e l’osservare. Ogni separazione è, infatti, un legame.
Sarah Lucas è in mostra a The Tate Britain dal 28 settembre 2023 al 14 gennaio 2024.