Hydra, May 20th
George Condo in conversation with Andrea Goffo
Nella serata di apertura, tra le persone in fila per entrare nel Project Space della DESTE Foundation, ex Macello sull’isola greca di Hydra, scorre un curioso sentimento di trepidazione. Tutti sembrano chiedersi cosa avrà combinato George Condo, rinomato artista americano, all’interno di questa piccola struttura che si affaccia sul Mar Egeo e che dal 2009 ospita ogni estate un progetto site-specific di un artista internazionale.
La folla viene accolta dall’artista che, con un’aria relativamente serena, conversa con Massimiliano Gioni, il curatore della mostra intitolata The Mad and The Lonely, e Dakis Joannou, famoso collezionista fondatore della DESTE. Sembrano tutti soddisfatti dei risultati e delle reazioni dei primi visitatori che riscoprono le opere di Condo, collocate in un dispositivo espositivo inedito: una serie di scatole policromatiche che incorniciano piccoli dipinti appartenenti a diversi periodi della sua carriera. Una serie di piccole sculture in bronzo completano questa mostra intima e affascinante.
Come definiresti la mostra The Mad and The Lonely e perché hai scelto questo titolo?
GC In realtà è una sorta di retrospettiva, perché tutti i dipinti e le sculture in mostra appartengono a momenti diversi della mia carriera. Ad esempio, l’opera più vecchia è del 1989. In un certo senso, è una nuova presentazione di vecchie opere, non c’è solo una nuova location. È vecchia e nuova allo stesso tempo. Nessuno dei dipinti è mai stato visto prima, in quanto fanno parte della mia collezione personale e del mio archivio. Volevo che questa mostra fosse una distorsione temporale con un aspetto senza tempo. Il titolo della mostra si riferisce alla mia vi- ta quotidiana a New York. Il mio studio è uno spazio molto buio e lavoro da solo per molte ore. Alla fine della giornata, mi sembra quasi di impazzire anche a causa della solitudine. Mi sento quasi in esilio, come Napoleone in Corsica. Quando sono arrivato a Hydra per allestire la mostra, ho trovato un’atmosfera completamente diversa: la luce del Mediterraneo. Quindi, ho voluto creare una contraddizione tra un titolo oscuro e un’installazione colorata e molto positiva.
La disposizione della mostra è semplice ed efficace. Da dove nasce l’idea delle scatole policromatiche?
GC L’idea si riferisce direttamente alla natura policromatica della statuaria e dell’architettura greca classica, un aspetto che è stato completamente perso nei secoli. Allo stesso tempo, è un omaggio paradossale al lavoro di Donald Judd, di cui sono sempre stato un grande fan. Mi sono detto che unacosa che un artista minimalista non farebbe mai è inserire un’opera figurativa all’interno di una struttura geometrica. È quasi un affronto, un atto anacronistico. Ma è così che lavoro come pittore: prendo il segmento di un dipinto rinascimentale e lo aggiungo a un elemento di un’opera del XX secolo, combinando così stili e linguaggi di diversi periodi artistici. Inoltre, queste scatole colorate mi hanno permesso di valorizzare questi piccoli dipinti che, se fossero stati appesi alle pareti originali del Macello, sarebbero stati quasi invisibili. Avevo bisogno di un supporto colorato per costringere le persone a guardarli. L’idea di combinare il Minimalismo con la pittura tradizionale è qualcosa che non è mai stato fatto prima.
In che modo l’ambiente del Macello ha influenzato la tua concezione della mostra? Il Macello è un luogo mostruoso ma molto reale, un luogo che racconta l’identità e la storia di Hydra. Allo stesso tempo, il tuo intervento lo ha trasformato in una grotta popolata da creature bizzarre che ricordano i miti greci di Kronos, Perseo e Medusa.
GC Questo luogo può anche diventare una potente metafora per descrivere il nostro presente. Dopotutto, il mondo in cui viviamo è un macello attraversato da conflitti fisici e virtuali, dall’Ucraina a Gaza, dagli Stati Uniti alla Cina. Questo spazio, abitato dai fantasmi mitologici degli animali uccisi qui, è una piattaforma per me per costruire una realtà alternativa, colorata e gioiosa. Non intendo fare una dichiarazione politica, ma in un certo senso lo è. Vorrei che i politici pensassero come i pittori, che considerano tutti i colori necessari senza gerarchia. Se comprendessero il valore di questi diversi colori nel mondo e lavorassero come lavorano i pittori, il risultato sarebbe molto migliore e il mondo sarebbe più bello e armonioso; giungeremmo a una risoluzione dialettica degli opposti.
Un critico ha definito la tua pittura una sorta di dizionario dell’arte. Nel corso della tua carriera, hai costruito un dialogo con i grandi maestri del passato e con alcuni pittori cruciali del ventesimo secolo come Picasso, Baselitz e Bacon, per citarne alcuni. Hai paragonato il tuo approccio a quello di Duchamp: gli stili pittorici di altri artisti sono per te oggetti trovati simulati. Puoi spiegare meglio cosa intendi con questa espressione?
GC Nel 1982-1983, quando ho lasciato New York e la Factory di Andy Warhol e sono andato a Los Angeles, pensavo che sarei tor- nato in città solo nel caso avessi trovato qualcosa di radicalmente diverso da quello che facevano i pittori come David Salle e Julian Schnabel in quegli anni. All’inizio, pensavo di dovermi concentrare su qualcosa che attingesse ai grandi maestri del passato. In quel periodo, stavo leggendo un testo di Glenn Gould su Bach. Sosteneva che il genio di Bach risiedeva nel fatto di essere 400 anni indietro rispetto al suo tempo. Era un compositore del XVIII seco- lo, ma il suo lavoro riguardava il linguaggio musicale del XVI o XV secolo. La mia ammirazione per Duchamp mi ha spinto a imitarlo e quindi a creare qualcosa che apparisse come un oggetto trovato. La simulazione consisteva nel dipingere un quadro come se fosse esistito 200 o 300 anni prima.
Gli inizi della tua carriera corrispondono a una stagione mitica a New York, quella dei primi anni ’80, popolata da figure come Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Andy Warhol. Qual è il tuo ricordo più vivido di quegli anni?
GC Direi l’accettazione da parte di altri artisti che capivano profondamente il mio lavoro. Tuttavia, i critici non sapevano da che parte girarsi. Erano molto arretrati nella loro analisi. Potevano solo riferirsi al fatto che il mio lavoro somigliava a Picasso. Ma se metti un mio dipinto di quegli anni accanto a un Picasso, vedi che non gli somiglia affatto. Molti mi incoraggiavano ad andare in Europa dove avrebbero capito meglio una pittura americana come europea. A Colonia, nel 1983, ho incontrato Monika Sprüth, che mi ha dato la mia prima mostra personale con alcune opere che avevano uno spirito molto surrealista, vicino a De Chirico, che anche lui non si definiva mai surrealista. Quei dipinti condensavano stati d’animo misti in un’unica immagine.
Leggi l’intervista completa sul numero di settembre, Issue 64.