JODIE TURNER-SMITH IN CONVERSAZIONE CON PAIGE SILVERIA
PS Mi racconti della tua infanzia? Come era strutturato l’ambiente che ti ha formata? Come eri tu da bambina? Che tipo di cose ti interessavano, in che modo giocavi?
JTS Mi piace pensare di essere nata per raccontare storie. Prima di saper leggere, inventavo storie da condividere con mia madre, la quale mi racconta che iniziavo una storia ogni volta che uscivamo di casa per fare una commissione, per poi interromperla e riprenderla appena tornavamo in macchina. Ho iniziato a leggere molto presto, all’età di 3 anni, e già allora sapevo che le parole mi avrebbero aperto il mondo intero. Leggevo tutto quello che mi capitava, il retro di una scatola di cereali, i contenitori di ingredienti e le bottiglie di spezie, lettere, e tutti i libri che riuscivo a trovare. Quando ho iniziato ad andare a scuola, leggevo tutti i libri richiesti per il mio anno, oltre a quelli assegnati a mio fratello e mia sorella maggiori. La biblioteca era il mio posto preferito. Il sabato, quando ero grande abbastanza, mia madre mi accompagnava e io rimanevo lì per ore a divorare libri su libri, e a prenderne altri 10-14 da leggere quella settimana, prima di tornare il sabato successivo per ricominciare da capo. Il mio patrigno mise luci e coperte in un armadio sotto le nostre scale e mi creò un piccolo angolo di lettura, nel quale sparivo per ore e ore, distratta solo dal suono di mia madre che gridava, dopo avermi chiamata per almeno 15 minuti. Probabilmente è per questo che i miei genitori non avrebbero mai pensato sarei diventata un’atleta. Ma è successo. All’età di 13 anni giocavo a calcio, poi mi sono dedicata all’atletica leggera. Adoravo lo spirito di competizione. Ma tornavo sempre, sempre, alle storie.
“Mi piace pensare di essere nata per raccontare storie. Prima di saper leggere, inventavo storie da condividere con mia madre. […] Ho giocato a calcio e poi mi sono dedicata all’atletica leggera. Adoravo lo spirito di competizione, ma sono sempre, sempre, tornata alle storie”.
PS Quale aspetto della tua eredità giamaicana ti ha maggiormente influenzata? Come descriveresti questa cultura?
JTS Sono cresciuta in una famiglia giamaicana. Anche se abbiamo vissuto in Inghilterra e poi in America, i miei genitori, soprattutto mia madre, hanno sempre trovato amici e conoscenti culturalmente simili. Ricordo una casa che profumava sempre di cibo delizioso, e dopo di incenso bruciante. Soprattutto ricordo una casa sempre piena di persone, di risate e di storie. È difficile dire quale parte della mia eredità giamaicana abbia avuto maggiore influenza su di me.
PS Ho letto che sei molto legata a tua mamma. Com’è stato crescere con lei? Una medium mi ha detto che, come spiriti che entrano nel nostro corpo, scegliamo i nostri genitori. Penso che sia un’idea molto dolce.
JTS Mia madre è la mia prima migliore amica. È stata lei a insegnarmi a leggere, ad andare in bicicletta (anche se lei stessa non sapeva andarci!), a pulire e lucidare correttamente un pavimento, ad avere stile ed eleganza, e a sconfiggere un nemico con una lingua tagliente e uno sguardo severo. Mia madre, che è sempre stata l’unico genitore costante, e il più importante della mia vita, mi ha totalmente trasmesso la sua cultura. Sono grata che non mi abbia mai nascosto la cultura giamaicana per motivi di assimilazione. Mi ha insegnato a cucinare, ha condiviso la musica che amava, e mi ha trasmesso tutte le abitudini, le preferenze e le opinioni giamaicane. Lei è il mio monologo interiore. Quando sono diventata madre anch’io, ho riaffermato tutte le cose che sapevo e anche quelle che non ricordavo. Ho un nuovo modo di apprezzarla per quello che mi ha insegnato, e che mi sta ancora insegnando. In questo momento siamo più vicine che mai, perché ora sono una donna e la vedo come una donna, interamente, senza l’ingenuità di una bambina. Comunque sono certa di averla scelta. Avevo bisogno del suo spirito, che mi guidasse per diventare la persona che sono oggi.
Leggi l’intervista completa sul numero di Settembre, Issue 62.