Sin dalla metà degli anni ’70, Dawoud Bey (1953, Queens, New York) ha lavorato per esplorare le capacità e le responsabilità del mezzo fotografico. Ritenendo la fotografia una pratica etica alla base della quale vi è un fondamentale rapporto di collaborazione con i soggetti ritratti, Bey crea intense riflessioni sulla visibilità, il potere e la razza. Attraverso un’ambiziosa pratica visiva, l’artista vuole dare spazio e riconoscimento a quelle presenze e quei soggetti che nel corso degli anni sono stati marginalizzati, raccontando le comunità e le storie ampiamente sotto-rappresentate se non addirittura rese invisibili dalla narrativa predominante. Il suo lavoro torna dunque all’urgenza di una conversazione riguardo il significato di raccontare l’America con una macchina fotografica.
Bey si avvicina alla pratica fotografica scattando foto ad Harlem tra il 1975 e il 1979. Imparare a conoscere la comunità locale e permettere, allo stesso tempo, alla medesima comunità di conoscerlo, fu un processo che gli fece comprendere l’importanza della componente sociale, la quale andava ben al di là del creare un’immagine. Al momento dello scatto, la macchina fotografica spariva lasciando spazio all’esperienza più intima e profonda tra Bey e il soggetto ritratto. Spaziando tra le prime serie di ritratti scattati ad Harlem ed i lavori più recenti, nei quali l’artista immagina una scappatoia alla schiavitù tramite la Underground Railroad; la retrospettiva Dawoud Bey: An American Project racconta del profondo coinvolgimento tra l’artista, il soggetto Afroamericano ed Harlem stessa.