MANIFESTO

#63

CHANGE OF SPACE

JOSH SMITH

2023.03.03

Photograohy CLÉMENT PASCAL

Interview MADDALENA IODICE

ASTRAZIONI VIBRANTI

 

Le opere dell’artista Josh Smith sono un ritratto onesto dell’esistenza umana.

Astrazioni vibranti che accolgono la vita nel suo caos polimorfo fatto di coerenza e contraddizione, luci e ombre, alti e bassi. Il gesto pittorico anima le tele con pennellate dai colori saturi e densi, dando forma a motivi visuali nei quali gioia, umorismo e tristezza si alternano e sovrappongono, esattamente come accade a tutti noi mentre surfiamo le onde della vita. Ho parlato con Josh in occasione della sua ultima mostra JOSH SMITH: OK presso la sede milanese della Galleria Massimo de Carlo. Una conversazione che ci ha portato dal processo creativo dietro alla nuova serie di opere in grande formato, al moto della sua pratica, un linguaggio visuale con il quale tutti possano relazionarsi, fino alle complessità intrinseche all’essere artista. Josh ha compreso quanto sia importante lasciarsi un po’ andare per poter apprezzare davvero il processo del fare arte e il privilegio di poterla condividere con gli altri. 

JOSH SMITH IN CONVERSAZIONE CON MADDALENA IODICE

 

MI Nella tua ultima mostra Keyhole le opere hanno subito un’evoluzione in termini di scala ed energia visuale. Questa nuova serie sembra esplorare ulteriormente quel discorso. Come sono nati questi lavori?

JS Negli ultimi due anni ho dipinto in maniera più pittorica. Pensavo ad un’immagine e studiavo come entrarci dentro. Ma dato che lo stile figurativo è divenuto piuttosto popolare, e in passato molto del mio lavoro è stato astratto, ho pensato potesse essere interessante e facile, andare nuovamente in quella direzione. Ma non si può tornare indietro così facilmente, ho dovuto re-imparare. La mostra Keyhole è andata bene, ma questa volevo fosse diversa. Odio che le mostre siano uguali, inoltre, non ho mai esposto in uno spazio come questo. È un luogo classico e speciale, volevo davvero fare del mio meglio. Con la pittura astratta non sai mai cosa stai facendo, e se sei così in controllo da rendertene conto, beh allora forse hai un problema. Devi distruggere tutto ciò che conosci per comprenderla veramente. Quando lavoro a un dipinto, se inizio a sentirmi troppo a mio agio, troppo sicuro, in qualche maniera lo distruggo. Voglio che le mie opere restino un po’ sospese in modo che lo spettatore possa ri-assemblarle nella propria mente senza quella sensazione di trovarsi davanti a un lavoro perfettamente confezionato per lui, come un prodotto. Desidero che le persone si prendano il tempo per comprendere profondamente ciò che stanno guardando e perché questo accada, io stesso passo molto tempo con il lavoro, imparo a conoscerlo, esattamente come farei con una persona. 

TIRED KID, 2022.

MI Come ti sentivi quando hai iniziato a lavorare su questi dipinti? C’era una sensazione in particolare che volevi processare ed esplorare? 

JS Ormai non intelaio più le tele, le compro già intelaiate e quando arrivano, beh sono piuttosto finite. Il bianco è bellissimo così com’è. Quando prendo il pannello e tocco la superficie penso “anche così è finito”, ma non può funzionare in questo modo, quindi continuo a toccare la tela con il pennello, e pian piano prende forma un mondo. Molte parti di questi nuovi lavori astratti sono stratificazioni del mio percorso nella pittura. Ho realizzato dipinti del mio nome, ho fatto pesci… ho davvero creato tantissimi dipinti confusionari nei quali si sovrapponevano e ripetevano soggetti diversi, e questo repertorio è ancora tutto lì, a mia disposizione. Di recente ho notato che essendo mancino tutti i miei lavori hanno una tendenza gestuale verso sinistra. Ad un certo punto ho anche provato a girarli in modo da evitarlo. Ma in realtà, ogni opera che realizzo è esattamente ciò che voglio. Se non la voglio, non esce fuori nulla. 

MI Infatti alcune di queste opere mostrano dei motivi ricorrenti del tuo lavoro, come pesci, soli, palme. È un lessico che hai costruito consapevolmente o ha preso intuitivamente forma sulla tela?

JS Per ognuno di questi simboli c’è una ragione diversa. Ma in generale è come se mi fissassi su un’idea che poi pian piano prende forma. Le tartarughe di mare sono ispirate al tempo trascorso nel sud dell’America. Quando sono lì spesso vado al mare dove tutti hanno questi stickers a forma di tartaruga di mare attaccati sulla macchina che ricordano l’Art Brut americana. Le palme invece… spesso nei musei è così evidente che alle persone non piaccia quasi nulla di ciò che c’è dentro… Si trovano davanti agli artefatti di un mondo freddo e sterile. Quindi ho voluto inserire dei simboli di realtà che riflettessero il mio immaginario americano e intervenissero su questa dinamica. Penso sempre al contesto del mio lavoro e mi piace l’idea che se qualcuno prende uno dei miei dipinti, in qualche modo la sua collezione deve cambiare o reagire a quella scelta o magari si renderà semplicemente conto di essersi sbagliato. Un altro aspetto unico dei miei dipinti è che sembra chiunque possa realizzarli. Si vedono le pennellate, non è come un’opera di Gerhard Richter, capisci? Voglio che il mio lavoro sia accessibile, in modo che se qualcuno che non si è mai neanche domandato cosa sia l’arte lo guarda, può vedere immediatamente come è stato fatto. Voglio che il mio lavoro sia sincero, e mostrare le tracce che lo costituiscono. Questa trasparenza è importante per me. Quello che faccio è tutta la mia vita, non faccio nient’altro. Ho iniziato anche a sperimentare con tele di grande formato. Ho sempre pensato i miei lavori fossero piuttosto grandi ma poi quando sono arrivato a collaborare con queste gallerie importanti mi sono reso conto che sembrano dei pois. 

MI Hai iniziato a lavorare su tele di grande formato durante il Covid con la serie dedicata a New York?

JS Prima in realtà, già durante la mostra Jungle nel 2019 alla galleria David Zwirner. Ho realizzato che per riempire quella galleria dovevo lavorare su dei formati molto più ampi, e ho letteralmente dovuto imparare a farlo perché avevo sempre dipinto su tele proporzionate al mio corpo. Questi dipinti funzionano molto bene qui alla Massimo de Carlo, ma la differenza con la mostra Keyhole è che qui ho spinto un po’ di più. Anche se sai, non è così facile, spesso sto lavorando su un dipinto bello, che funziona, e lo distruggo. È quello che è successo all’inizio con l’opera 2 Chairs.

MI Interessante perché l’opera 2 Chairs mi ha colpito per l’aspetto quieto che la caratterizza sia nella dinamica che nella palette, soprattutto se paragonata agli altri lavori esposti. 

JS Da quell’opera emergono le cicatrici degli strati di pittura precedenti. Queste opere non sono finite, sono state fatte. È il mio lavoro, ma non posso continuare a dipingere all’infinito, ed è per questo che ora aggiungo dei bordi. In passato i bordi erano parte del dipinto stesso, ma ora la loro funzione è quella di ricordarmi che devo fermarmi. In qualche maniera mi permettono di sigillare il lavoro. 

MI Vorrei parlare del titolo conciso che hai scelto per la mostra: OK. Suona un pò come “Ok, questi dipinti sono finiti e pronti per essere mostrati…” o “Ok, sto bene in questo momento della mia vita…”

JS Non so perché ma quando si tratta di titoli ho sempre scelto espressioni un po’ ostili. Una era Killed the idea… sto provando a essere una persona meno negativa, perché posso diventare davvero molto cupo. A volte guardando al mio lavoro di 5 o 10 anni fa mi rendo conto essere una traduzione della mia depressione, e non voglio essere così per tutta la mia vita. Si tratta di un tentativo forzato di gioia per cercare di non essere depresso, ed è per questo che ho cercato di introdurre nel mio lavoro colori più allegri e immagini più positive… Certo è inevitabile, la depressione è latente sotto la superficie, ma non voglio che la mia arte sia un’illustrazione della mia depressione. Non voglio che i miei dipinti vengano percepiti come difficili o che le persone siano appesantite dalla mia ansia e dal mio stress.

THE WHOLE STORY, 2022.

MI Hai davvero la capacità di mostrarti in una posizione di vulnerabilità attraverso il tuo lavoro. Non è una cosa facile e richiede grande onestà verso se stessi e verso lo spettatore. Io percepisco questa tua onestà! Guardando il tuo lavoro vedo come la gioia si intreccia con diversi e complessi strati emotivi, e questo in quanto spettatore ti porta a investigare non solo ciò che vedi, ma ciò che senti… È molto interessante anche la scelta che fai dei titoli. La contrapposizione tra la qualità astratta dei tuoi dipinti e i titoli descrittivi con i quali li accompagni, crea una sorta di corto circuito. È in questo spazio di tilt che risiede il potenziale per l’interpretazione dello spettatore. In modo simile Christopher Wool creava delle allitterazioni, come nella parola TRBL o lasciva delle frasi incomplete come in YOU MAKE ME, offrendo quindi uno spazio allo spettatore per completare l’esperienza artistica.

JS Sai, prima non usavo i titoli, ma mi sono reso conto che è molto più divertente averli, e poi mi aiuta a ricordami i dipinti. Rispetto a Christopher, ho lavorato con lui per 7 anni, e mi ritengo fortunato ad aver incontrato uno dei più grandi artisti viventi. La sua influenza è stata infinita. Ho imparato che ogni cosa deve essere provata almeno 10 volte, bisogna fare dei tentativi e lasciare che gli sbagli si sviluppino invece che ucciderli. Bisogna lasciarli proliferare come funghi non solo in un’opera, ma attraverso tutto il lavoro. Christopher ha avuto un impatto anche nel modo in cui approccio la misura della tela. Mi sono reso conto che se lavoro su formati simili posso farne scorta e nasconderli uno dall’altro mentre prendo familiarità con la misura. È un po’ come per te che sei una scrittrice e hai il tuo pezzo di carta… In questo modo posso trattare le tele come fogli. Non saranno tutti lavori fantastici, ma ognuno è un’altra occasione per fare qualcosa di nuovo.

 

 

Leggi l’intervista completa sul numero di Febbraio, Issue 61.

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