MANIFESTO

#63

CHANGE OF SPACE

JENNIFER GUIDI

2023.02.20

Photography YE RIN MOK
Interview NICCOLÒ GRAVINA

“L’astrazione era un nuovo territorio, avrei già voluto fare questo passo anni prima, ma non mi sentivo ancora pronta.” – Jennifer Guidi

JENNIFER GUIDI IN CONVERSAZIONE CON NICCOLÒ GRAVINA

 

NG Una grande pittrice astratta una volta disse che dalla musica la gente accetta l’emozione pura, ma dalle arti visive pretende una spiegazione.

JG È vero. Mi chiedo quale sia il motivo. [ride]

NG Penso che sia una questione che riguarda il rapporto tra dimensione personale e collettiva. Due ambiti che, nel tuo lavoro, si sono intrecciati in modo interessante. A proposito del tuo graduale passaggio all’astrazione, mi hai raccontato di come il pubblico si sia interessato profondamente al tuo lavoro una volta che ti sei rapportata ad esso in modo individuale. In altre parole, il tuo lavoro ha raggiunto un alto livello relazionale nel momento in cui ti sei concentrata sul tuo personale.

JG Sì, nel periodo della mia transizione all’astrazione non ero rappresentata da una galleria, e non esponevo da diversi anni. Penso che aver avuto quel tempo per stare da sola nello studio, senza permettere a nessuno di entrarci o esprimere pareri, mi abbia dato l’occasione di contemplare, e questo per me è stato molto liberatorio. Un amico artista non lasciava entrare nessuno nel suo studio prima che il lavoro fosse finito, e mi disse: “Non lasciare che qualcuno lo uccida prima che abbia il tempo di crescere e vivere”. Questo modo di pensare mi piaceva. È stata una lunga transizione. L’astrazione era un nuovo territorio, avrei già voluto fare questo passo anni prima, ma non mi sentivo ancora pronta. Venendo da una formazione figurativa alla Boston University, dove ho imparato a disegnare e dipingere dalla figura e dalla natura morta, mi sembra di aver documentato una parte della mia vita dipingendo me stessa, i miei amici o gli interni in cui vivevo. I miei dipinti figurativi hanno iniziato a diventare più piatti e più incentrati sul pattern, stavo cercando di liberarmi da tutte le immagini. Ero molto interessata agli sfondi che dipingevo, che erano di un solo colore. Amo i primi dipinti monocromatici di Agnes Martin, ma non mi consideravo una pittrice minimalista. Non sapevo che potesse essere una possibilità per me. Un vero punto di svolta è stato quando ho deciso di fare qualcosa più incentrato sulla creazione di segni, e la ripetizione è diventata un processo meditativo a sé stante. In questo modo ho potuto realizzare una serie di opere che è diventata un quieto esempio del mio percorso personale. Quando ho completato un certo numero di dipinti, mi sono sentita sicura di aver realizzato qualcosa di veramente mio. A quel punto ho finalmente permesso alle persone di entrare nuovamente nello studio, ed è stato molto emozionante per me, perché capivano quello che stavo cercando di trasmettere.

NG Puoi parlarmi di come hai realizzato queste prime opere astratte, delle prime tecniche che hai utilizzato, e delle ispirazioni principali che hanno determinato la transizione?

JG Nel 2012 ho fatto un viaggio in Marocco e al ritorno ho portato con me diversi tappeti. Il mio passaggio all’astrazione è iniziato quando ho cominciato a fotografare le cuciture e i pattern casuali sul retro. Da quegli scatti ho realizzato una serie di piccoli dipinti su carta, che hanno portato a un più ampio corpo di opere su tela.

NG Mi hai raccontato di come ti sentissi vincolata dalla pittura figurativa. Eppure, a volte le figure riemergono anche nei tuoi disegni più recenti.

JG Per quanto riguarda i disegni, quando le figure hanno iniziato a riemergere, le concepivo soprattutto come metafore funzionali alla storia complessiva che stavo cercando di raccontare. Nei miei dipinti queste immagini mistiche sono a volte nascoste dagli strati superiori di sabbia e pittura, ma anche quando non sono visibili, la loro energia ne influenza la percezione. Questi simboli fanno parte di una storia personale e collettiva più ampia.

NG Parlando della tua pratica di meditazione mi hai spiegato come le idee ti vengono incontro, al di là di ogni possibile pianificazione. In un certo senso, mi ricorda i pittori bizantini di icone, che eseguivano un nucleo di motivi di base, nella convinzione di essere strumenti di una luce-immagine soprannaturale che si riversava nell’opera attraverso le loro mani. A questo proposito hai menzionato il concetto di ispirazione, non nell’accezione del romanticismo, ma più in riferimento alla sfera della meditazione, in relazione alle culture orientali. Mi interessa molto la tua attitudine a far convergere sulla tela elementi culturali diversi, dalla teoria del colore di Goethe ai mandala tibetani.

JG Nella meditazione, che pratico da molti anni, c’è un’apertura che avviene quando si sta seduti. Credo che questa pratica mi aiuti ad accedervi, perché favorisce un atteggiamento di consapevolezza: se sei seduta e sei aperta ai pensieri e alle idee, queste arriveranno. Naturalmente ci sono altri modi per trovare l’ispirazione, e vivere momenti illuminanti che ci portano a trovare soluzioni. Penso che tutti noi viviamo quegli attimi, in cui ci troviamo in quell’area e sappiamo di essere in uno stato mentale diverso. Agnes Martin diceva che si sedeva e aspettava una visione. Se sei una persona visiva, con il tempo un’immagine, un colore o un’idea affioreranno. Molte volte cerco di pensare a come realizzare qualcosa di nuovo e arriva quel momento in cui improvvisamente so come realizzarlo.

Nirvana Quartz, 2022.
I Continue to Find My Way, 2019.
We Shine Outward Into the Universe (Gemini and Cancer), 2019.

NG Agnes Martin diceva anche di dipingere “con le spalle al mondo”. Direi che tu hai una maggiore propensione all’apertura.

JG Sì, è diverso. Lei era un’artista che preferiva vivere in solitudine e lavorare senza interferenze esterne. A me piace decisamente essere connessa alle persone. Stavamo parlando dell’uso dei colori per entrare in connessione con le persone, di come evocano emozioni e gioia, e questo mi interessa molto. Di recente ho presentato una mostra al Long Museum di Shanghai; purtroppo non ho potuto andarci per via delle restrizioni, ma ho ricevuto tantissimi messaggi da persone che erano appena uscite da un pesante lockdown, ed erano così felici di uscire e fruire l’arte.

NG Nella tua arte questo tipo di connessione e comunicazione avviene anche attraverso l’evocazione, per esempio nei titoli, di concetti scientifici come l’energia e i campi magnetici. Questa possibilità di muovere le persone attraverso campi di forza mi sembra fondamentale, anche in relazione a composizioni in cui i segni provengono da un punto focale centrale e si espandono verso lo spettatore. Va interpretata come una metafora o qualcosa di più?

JG Penso che sia reale! Stando di fronte al dipinto, io stessa sono sorpresa. È come quando crei qualcosa e sei in quello stato di alterazione, in quella zona, poi senti un senso di distacco e quasi ti chiedi se sia stata tu a creare l’opera d’arte. Improvvisamente l’opera è lì, esiste, e stando di fronte ad essa si prova questa energia, questo movimento. Sento che l’energia che mettiamo in qualcosa viene anche restituita.

NG Sì, una sorta di comunicazione fisica e profonda. Al di là di questa dimensione relazionale, c’è ancora qualcosa nella tua pratica che ritieni cruciale, ma che difficilmente viene trasmesso allo spettatore?

JG Per me creare l’ambiente è importante; ho progettato, ad esempio, una stanza circolare per ospitare ventidue miei disegni in uno stand personale con David Kordansky per la FIAC di Parigi dell’ottobre 2019. Ero preoccupata di esporre i miei disegni, di piccole dimensioni e incorniciati, in una fiera. Volevo che le persone rallentassero e prendessero del tempo per le opere. Poi ho iniziato a pensare a una stanza. Un luogo speciale per essere trasportati fuori dalla fiera in un posto tranquillo, più domestico. Ho iniziato a progettare questa stanza in una maquette e poi ho tracciato la pianta con il nastro adesivo in studio. All’interno di questo cerchio è stato possibile inserire perfettamente ventidue pannelli, lasciando uno spazio libero come porta. Ho ricoperto ogni pannello con sabbia nera e ho trovato un tappeto nero per il pavimento. In questo modo ho creato un ambiente intimo in cui osservare le opere. Nella mia nuova mostra c’è un giardino di rocce, e ho progettato tutti gli elementi dell’installazione, fino al tipo di ghiaia utilizzata. Molte volte mi accorgo che le persone non si rendono conto che anche questo fa parte del mio lavoro. Quando curo una mostra, ho un approccio più olistico. Lavoro con una maquette per creare un’esperienza più immersiva. Tengo conto dell’architettura, decido quali dipinti appendere l’uno accanto all’altro, come interagiscono tra loro e come il colore risuona da uno all’altro: anche questo è molto importante per me.

NG Questo mi fa pensare a come tu sia stata influenzata da artisti che usano l’architettura per creare ambienti domestici. Mi hai raccontato del tuo amore per le stanze di Robert Gober e di come ti hanno commosso le Cells di Louise Bourgeois; di come nei luoghi in cui vivi ti senti come se stessi continuamente curando, e che fin da bambina avevi bisogno di vedere come funzionavano gli oggetti nello spazio. Sembra che questo atteggiamento investa la tua pratica, ma anche gli altri aspetti della tua vita.

JG Sento che pervade ogni aspetto della mia vita, non riguarda solo la tela. Lo stesso studio è un’espressione della mia persona. In una certa misura, voglio controllare l’ambiente che mi circonda, anche nella mia casa, il modo in cui voglio organizzarlo e curarlo, o anche solo costruirlo. Penso a me stessa come artista, che realizza cose, ma in un certo senso sono anche una persona che costruisce. Tutti gli esseri umani lo sono. Posso guardare costantemente le città, sai, tutto ciò che abbiamo fatto dall’antichità a oggi, è incredibile, cerchiamo costantemente di costruire, creare e migliorare [ride].

NG Sì, la questione del controllo sull’ambiente espositivo è affascinante. Tendiamo a focalizzarci sul ruolo dei visitatori nel costruire un percorso interpretativo e personale, che si suppone sia libero da prescrizioni curatoriali. Ma spesso l’assenza di indicazioni si traduce più nell’oblio del pubblico che nella sua libertà. È anche attraverso queste dinamiche che i visitatori diventano parte di un insieme, completando per così dire la mostra. C’è qualcosa di cruciale che hai capito dal pubblico e che non ti aspettavi?

JG Riguardo ai social media, quando ho iniziato a usare Instagram non postavo opere d’arte, scattavo solo fotografie in giro per Los Angeles, per lo più di architettura, studi delle forme, dei colori, e del modo in cui la luce batte sui muri. Per me l’energia che ricevevo dalle persone, il feedback positivo, in quel momento era davvero importante. Mi sentivo molto nascosta, avevo fatto un paio di mostre e non era accaduto nulla; a quel tempo, nei primi anni Duemila, prima dei social media, se una galleria, un museo o un curatore non spingevano un artista, non c’era modo per la gente di sapere veramente di te. Così, ho visto i social media come una piattaforma straordinaria in cui le persone erano di grande supporto, ed era davvero un modo per farsi vedere, realizzando che erano interessate a guardare attraverso i miei occhi, a come il mio cervello lavora a livello visivo. Poi, quando ho ricominciato ad esporre, e ho fatto la mia prima mostra a New York, avevo già iniziato a postare i miei lavori su Instagram. Avevo capito che le persone avevano recepito quello che stavo facendo, rispondevano in modo molto positivo; quindi, era un altro modo per verificare che ero sulla strada giusta in termini di connessione.

 

 

 

Leggi l’intervista completa sul numero di Febbraio, Issue 61.

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