Dopo diversi tentativi di riportare agli splendori degli anni ’70, ’80 e ’90 la Maison aperta da Thierry Mugler nel 1974, è arrivato Casey Cadwallader, designer americano di 42 anni nominato Creative Director nel gennaio 2018, che ne ha rigenerato i codici con linguaggio contemporaneo.
Dopo uno stage da Marc Jacobs, la sua esperienza è maturata presso Loewe (Head of womenswear), Narciso Rodriguez e Acne Studios. Cadwallader ci racconta come è entrato rispettosamente negli archivi della Maison, filtrandoli attraverso i suoi occhi, ma mantenendone intatto il DNA fatto di inclusività, trasgressione, sensualità e divertimento. Proprio nei giorni in cui Parigi celebra con una stupenda mostra al Musée des Art Decoratif il fondatore Manfred Thierry Mugler, come aveva deciso di farsi chiamare per separare la sua persona dal brand, viene a mancare.
GC Il tema di questo numero è THE NEW FUTURE. Come te lo immagini, considerando il modo in cui sta cambiando il mondo?
CC Per Mugler è naturale pensare al futuro, essendo sempre stato all’avanguardia per materiali, tecnologia e cultura. Il discorso sul genere è un tema altrettanto importante. Nel mio percorso personale di uomo gay, da giovane la mia femminilità mi imbarazzava, ma ora ne vado fiero. Il venerdì sera potrei uscire in total look di pelle e il lunedì mattina indossare i miei occhiali da lettura in ufficio con la stessa naturalezza. Ogni individualità ha le sue peculiarità. Inoltre, cosa succederà con questo nuovo sé digitale e dove ci sta portando? Penso che l’idea di un’identità virtuale, e tutto ciò che ne consegue, sia eccitante e spaventosa allo stesso tempo, perché la realtà in cui viviamo è inevitabile. Queste meta dimensioni possono creare un senso di distacco al punto di dimenticare di pulire il tuo frigorifero o di dare da mangiare al cane… e non so quanto sia positivo. Sono anche particolarmente concentrato nel prendermi cura del mio corpo, in termini di salute, alimentazione e sonno, perché questo permette al mio cervello di essere ben nutrito, mi aiuta a pensare ad un livello superiore e mi fa capire quanto sia delicato questo equilibrio. Ciò che mi preoccupa è che in questo scenario il vero corpo umano, quello che respira e pompa sangue, rischi di essere trascurato.
Così c’è stato un momento in cui ho capito che dovevo alzare l’asticella perché Mugler deve sorprendere e io forse non lo stavo facendo abbastanza. Mi ha dato la spinta per osare di più.
GC È vero. Parlando di futuro, in che direzione stanno andando la moda e la società? Considerando anche che la pandemia ha accelerato alcuni processi e cambiato le nostre abitudini.
CC La pandemia ha scombussolato tutto, ma sembra che alcune cosa siano già tornate al loro posto. Dentro di me sentivo che sarebbe successo qualcosa del genere, quindi in qualche modo ero pronto. È interessante perché tutti immaginiamo che ci sia una fine alla pandemia prima o poi, ma non sappiamo in che modo. Più in generale, la moda è in un momento che permette nuove sfide creative rispetto al passato. Prima le collezioni dovevano essere presentate per forza durante la fashion week, altrimenti eri escluso! Ora è tutto un po’ più fluido, questo crea diversi livelli di possibilità, e per me che sono un tipo che non ama seguire sempre le regole è eccitante. L’intero settore ha subito un cambiamento. Le persone hanno la possibilità di esplorare nuovi modelli di business e il loro rapporto con i clienti. Ora l’attitudine è più open-minded.
GC Trovo sia un periodo di messa a fuoco e definizione di nuove formule, non credi?
CC Sì, anche se per ora non ha prodotto un nuovo modello universale. Ce ne sono molti diversi in arrivo, quindi vediamo cosa succede.
GC Parlando del tuo lavoro da Mugler, si è evoluto insieme all’empowerment femminile e ogni sfilata regala energia positiva. Puoi spiegare questa evoluzione?
CC È un aspetto a cui ho pensato molto. Nel mio lavoro ci sono tanti livelli che devono allinearsi, insieme a cose che da fuori la gente non vede. Arrivi il primo giorno, non conosci nessuno, devi incontrare il tuo nuovo gruppo di lavoro. Alcune persone se ne vanno e tu ne assumi di nuove. Ci vuole almeno un anno per prendere le misure e poi si comincia a vedere la crescita. Questo è il primo punto, in più ci sono io che devo acclimatarmi, sentire la Maison e fare che lei senta me. È un’evoluzione graduale che mi ha fatto capire esserci delle connessioni tra me e l’energia interna del brand che non avevo ancora scoperto. Così c’è stato un momento in cui ho capito che dovevo alzare l’asticella perché Mugler deve sorprendere e io forse non lo stavo facendo abbastanza. Mi ha dato la spinta per osare di più. Naturalmente rischiare spaventa, soprattutto quando si è appena arrivati, ma l’ho fatto passo dopo passo aggiungendo un pezzo ad ogni collezione. Ho trovato la fiducia nell’essere audace, nel non prenderla troppo seriamente e una volta che ho preso il ritmo, ho realizzato che se io mi divertivo, anche il mio pubblico si divertiva. Ovviamente non succede dal giorno alla notte.
GC Penso che divertimento sia una parola chiave che il fashion system spesso dimentica. È nel DNA di Mugler e usandola hai saputo rendere moderno l’heritage della Maison. Come hai lavorato con l’enorme archivio del brand?
CC Ci sono due fasi. La Maison si fonda su tanti concetti diversi: importanti aspetti culturali, pop, spettacolo, il camp, la couture e costruzioni scultoree, grandi spalle, vite strette.
In un primo momento ho cercato di capire quali aspetti sentissi più vicini alla mia visione per poterli riformulare. Poi c’è la parte legata all’estetica di Thierry Mugler che è molto specifica e che sviluppata nel tempo è divenuta iconica. Non volevo cercare di imitare la sua mano perché non lo trovo rispettoso nei suoi confronti e neanche verso me stesso. Così, dato che abbiamo un archivio monumentale di tutto ciò che ha sfilato negli anni, ogni stagione scelgo due o tre rack di abiti, appena arrivano in ufficio li proviamo sulla modella creando combinazioni nuove. È molto diverso quando li vedi di persona e percepisci come sono stati fatti e la loro materialità. Poi facciamo delle foto e li rimandiamo indietro. Se rimangono nella stanza, ti parlano. Questa è una mia peculiarità: li consumo con gli occhi, faccio foto per il moodboard, e poi finiscono nel mio frullatore mentale, per uscirne scomposti. Estraggo la loro essenza, li filtro attraverso la mia lente. Così facendo il processo diventa una questione di curatela per cercare di mantenere il mio punto di vista.
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