The Genesis Exhibition: Do Ho Suh: Walk the House
Tate Modern, London
From May 1st until October 19th, 2025
Se la casa è il primo corpo che abitiamo dopo il nostro, allora l’opera di Do Ho Suh è una lunga, lucida meditazione sull’istinto primordiale dell’abitare. Non inteso come possesso, ma come radicamento emotivo, come spazio dove i ricordi si attaccano ai muri, si incastrano tra le maniglie, si sedimentano negli interruttori. La mostra Walk the House alla Tate Modern è la più ampia personale dell’artista sudcoreano a Londra in oltre vent’anni—e insieme una riflessione poetica, politica e intima su cosa significhi portarsi dietro la propria casa.
“Ho abitato in molte case, e non ho mai saputo esattamente dove fosse la mia casa. Però so esattamente dove fossero certe luci, certi odori, certi rumori, certe solitudini.” Così scriveva Ettore Sottsass in Di chi sono le case vuote? Sottsass e Do Ho Suh, pur provenendo da universi formali lontani, condividono lo stesso impulso sentimentale: la consapevolezza che l’identità non si costruisce in astratto, ma si intesse lentamente, nelle cose che tocchiamo ogni giorno, nei gesti ripetuti, nelle stanze attraversate. La casa non è solo uno spazio, è una grammatica dell’esperienza.

opening image: Do Ho Suh, Nest/s, 2024.
Alla Tate, si entra in una geografia della memoria, case cucite in tessuto semi-trasparente, corridoi che si biforcano, interni abitati dal silenzio. Nest/s (2024) unisce frammenti di abitazioni vissute in tempi e città diverse—Seoul, New York, Londra—mentre Perfect Home (2024) ricostruisce la casa attuale dell’artista a Londra, incorporando elementi architettonici dei luoghi precedenti. Ogni dettaglio è minuzioso, le serrature, i campanelli, persino le impronte lasciate dai chiodi. È come se Do Ho Suh volesse dirci che nulla, in una casa, è davvero neutro, che tutto trattiene qualcosa.
Il titolo Walk the House proviene da un detto tradizionale coreano che allude a un tipo di casa—l’hanok—smontabile e trasportabile. È un concetto che Do Ho Suh trasforma in poetica, camminare una casa significa attraversarla, ricordarla, ma anche lasciarla andare. Le sue architetture mobili—leggere, flessibili, quasi spirituali—mettono in crisi l’idea occidentale di casa come proprietà, stabilità, controllo. Invece, mostrano che abitare è un atto precario, continuamente in bilico tra radicamento e sradicamento.
“Lo spazio che mi interessa non è solo fisico, ma anche intangibile, metaforico e psicologico. Per me lo spazio è ciò che ingloba tutto.”
Lo si sente con forza nel Rubbing/Loving Project, dove l’artista riveste interi appartamenti con carta e poi ne sfrega la superficie con grafite o matite colorate, imprimendo ogni rilievo, ogni crepa. È un gesto insieme amoroso e compulsivo, che trasforma lo spazio in una seconda pelle. Do Ho Suh ha raccontato di aver perso le impronte digitali durante il processo: il corpo si consuma per far affiorare la memoria.
Ma Do Ho Suh non parla solo di sé. Nei video realizzati con fotogrammetria—come Robin Hood Gardens—registra architetture in via di demolizione, esplorando il paesaggio urbano come un organismo vivente, attraversato da assenze.
Walk the House è una mostra da percorrere, più che da osservare. Le sue stanze leggere ospitano le nostre proiezioni, le nostre partenze, i nostri traslochi emotivi. Ci ricordano che la casa non è dove siamo, ma dove siamo stati —e che forse, come suggeriva Sottsass nei suoi scritti, le case non ci appartengono mai del tutto, ci restano addosso per un po’, poi si offrono alla memoria di qualcun altro.

Per ulteriori informazioni tate.org.uk.