Tracey Emin: I followed you to the end
White Cube Bermondsey, London
19 September – 10 November 2024
Tracey Emin torna al White Cube Bermondsey con la mostra I followed you to the end, una presentazione di nuovi dipinti e sculture che attraversano l’amore e la perdita, la mortalità e la rinascita. Artista britannica nota per l’uso di una vasta gamma di media, tra cui disegno, video, arte installativa, scultura e pittura, le sue opere sono confessionali, provocatorie e trasgressive, spesso raffigurando atti sessuali e organi riproduttivi. Come Damien Hirst e Sarah Lucas, è considerata una degli YBA (Young British Artists, anche conosciuti come BritArtists). Attingendo a una recente esperienza di trasformazione, Emin continua l’ esplorazione dei momenti profondi e intimi della sua vita, con rinnovata intensità.
La mostra celebra il vocabolario pittorico espressivo di Emin, concentrandosi sul medium che ha occupato e coinvolto l’artista negli ultimi anni. Pennellate abili e impulsive catturano figure nel momento del loro divenire, mentre una tavolozza di carminio, avorio, blu intensi e nero tempera la volatilità degli stati fisici ed emotivi con intervalli di contemplazione e quiete. Fungendo da fulcro per il viaggio psichico della mostra, l’opera titolare I Followed you to the end (2024) suscita l’angoscia lamentosa derivata dalle complessità dell’amore. Immersa in una tempesta di rosso e nero, la sagoma di una figura femminile solitaria è incorniciata da un’esortazione scritta a mano agli amanti che l’hanno maltrattata:
Mi avete fatto diventare così. Tutti voi – voi – voi uomini che ho così follemente amato tanto. Siete voi quelli che mi avete fatto sentire così sola. Tutti voi – ognuno di voi a modo vostro. Io – io – io – ho sbagliato a continuare ad amarvi. Come una sciocca ho seguito l’amore fino alla fine. Come l’anima triste e tormentata che sono, vi ho seguito fino alla fine.
Da questo atto d’accusa ferito, emergono tensioni in altre opere, dove al lutto per l’amore perduto si contrappone una spinta viscerale all’autoconservazione. Nel dittico My Dead Body – A Trace of Life (2024), il soggetto femminile giace supino, con il bacino spinto verso l’alto e la testa che si immerge sotto una marea cremisi. Questa linea dell’orizzonte si estende alla seconda tela, dove un passaggio dichiara: “Non voglio fare sesso perché il mio corpo si sente morto“. Informata, in misura non trascurabile, dal recente confronto dell’artista con una malattia potenzialmente letale, l’opera parla anche con franchezza del personale confronto di Emin con la mortalità. Gli spazi privati che i soggetti di Emin abitano – letti e bagni – si trasformano in vasi sepolcrali, mettendo al sicuro la figura all’interno.
In molte delle opere, il velo tra la vita e la morte è sottile e permeabile, una soglia diafana attraverso la quale le figure dell’artista sembrano entrare in contatto con l’Aldilà. Allo stesso modo, il processo istintivo di Emin implica velare e svelare: spesso dipinge un’immagine sulla tela solo per oscurarla successivamente con ulteriori strati di bianco, lasciando dietro di sé un’impressione spettrale della forma sovrascritta, come si può vedere in Take me to Heaven (2024). Qui, il soggetto assume un tranquillo riposo, come se stesse fluttuando in un altro reame. A sinistra, una presenza di pallido lavanda – evocata attraverso questa tecnica – appare accanto alla protagonista, fungendo da surrogato per la madre deceduta dell’artista. Rappresentata all’interno di una stanza adornata con carta da parati a motivi floreali blu, la serenità della scena viene improvvisamente spezzata da un violento fiotto rosso che sgorga dal torso del soggetto, riportando il momento trascendente all’immediatezza del presente.
Simili motivi decorativi appaiono in opere come The End of Love, More Dreaming e Our World (tutte del 2024), che traggono ispirazione dai complessi disegni dei tappeti turchi collezionati dall’artista, di origine turca lei stessa. Questi pattern rappresentano una diversa forma di tracciato, guidato da un impulso meditativo piuttosto che dal fervore frenetico e urgente che spesso caratterizza i suoi dipinti. Ispirati dalle evocative scene domestiche di Edvard Munch, gli ambienti all’interno di queste composizioni diventano parte integrante della narrazione quanto le stesse figure. Marcatori autobiografici sono intrecciati in tutto il lavoro, come in The Bridge (2024), dove un paesaggio ondulato – suggerito dalla silhouette di un divano – collega simbolicamente le due città natali dell’artista, Margate e Londra, con i montanti del divano che evocano i supporti strutturali del Medway Bridge. In tutta la mostra, i fedeli compagni dell’artista – i suoi gatti – riappaiono sia sulle grandi tele che nei dipinti di piccolo formato, radunati intorno alla figura solitaria o eretti come sentinelle stoiche, silenziosamente di guardia. In The End of Love, fungono da soggetti sostitutivi, riempiendo il vuoto lasciato dalla silhouette macchiata dei due amanti, ora cancellati e assenti dal letto.
Per maggiori informazioni whitecube.com.