Harley Weir, The Garden
Hannah Barry Gallery, Londra
Dal 5 giugno al 13 settembre 2025.
In The Garden, Harley Weir trasforma la galleria Hannah Barry in un giardino mitico e inquieto-un cumulo di memorie che marciscono, corpi che si trasformano, desideri che fermentano. Il titolo, apparentemente pastorale, cela un terreno più profondo e oscuro: non un Eden, ma un dopoguerra intimo. Il giardino, qui, non è un luogo d’innocenza, ma di rovina personale, dove reliquie dell’adolescenza e della femminilità adulta collassano l’una nell’altra, formando un paesaggio psichico più archeologico che idilliaco.

Il lavoro di Weir ha sempre abitato uno spazio liminale tra seduzione ed esposizione. Le sue immagini sono costruite come piccoli altari: ossessive, luminose, e sempre leggermente fuori asse. In The Garden, questa sensibilità si approfondisce ulteriormente. La mostra si sviluppa su due piani, o forse sarebbe meglio dire su due livelli emotivi. Al piano terra, l’età adulta appare come un teatro di tensioni e contraddizioni. Le fotografie oscillano tra dolcezza e inquietudine, tracciando i paradossi della cura: la maternità come rifugio e come limite, il corpo come contenitore e come orologio biologico. Più che dare risposte, Weir apre spazi di riflessione. Non documenta una fase della vita, ma ne ascolta i ritmi-gli sbalzi ormonali, i ruoli che cambiano, la fatica che non si lascia fotografare.
Salendo, il tono cambia: dall’elegia al sogno. Weir presenta 28 nuove opere-oggetti ibridi realizzati con carta fatta a mano, fotografie, fiori secchi, ali di farfalla e lettere d’archivio risalenti agli anni ’90 e i primi Duemila. Sembrano reliquie sentimentali di un’adolescenza vissuta intensamente: in parte erbario, in parte confessione. Non cedono alla nostalgia, ma si muovono in un disordine vitale, dove innocenza e ossessione si intrecciano. C’è una forma di intelligenza in questa confusione, un rifiuto netto di separare il passato dal presente, il piacere dalla perdita.


Al centro della mostra si trova Sickos, una serie ancora in corso nata in camera oscura durante la pandemia, fatta di esperimenti visivi al limite tra scienza e magia. Le fotografie non sono più immagini statiche, ma superfici viventi che reagiscono, si sciolgono, sanguinano. Weir inserisce sangue, sperma, ormoni, profumi e pillole nei processi chimici tradizionali, trasformando ogni sviluppo in un atto di mutazione radicale.
La sua capacità di tenere insieme precisione e caos è forse il gesto più potente. Il suo lavoro si oppone alle logiche tradizionali del controllo fotografico – l’inquadratura, lo scatto, l’attimo decisivo. Le sue immagini sono porose, instabili, libere. Non congelano il tempo, lo lasciano fermentare. Più che a una tradizione documentaria, Weir sembra appartenere a una genealogia fatta di streghe, alchimiste e maghe del sentire.

“Il traguardo e l’illusione di dove sto andando.”
Pelle, memoria, desiderio-persino la cura-appaiono nel suo lavoro come materie fragili, facili da scalfire, delicate al tatto. Le immagini si comportano come climi interiori: effimere, cariche di tensione emotiva. Non si guardano: si attraversano, come si attraversa un odore persistente o un ricordo che sfugge. Se The Garden allude al paradiso, lo fa per rivelarne la finzione. Nessun Eden qui – solo compost e contraddizioni: fango, carne, archivi, desideri. Eppure, da questo disordine fertile, emerge qualcosa di luminoso. Non proprio speranza, ma una forma di decadenza sublime. Un marciume che nutre.
Weir definisce il giardino “Il traguardo e l’illusione di dove sto andando.” È probabile che non vi arrivi mai del tutto. Ma è proprio lì, nel tentativo, nello scavo, nel disordine, che risiede la bellezza.
Per maggiori informazioni hannahbarry.com.