Joshua Oppenheimer si è fatto conoscere grazie ad alcuni dei documentari più intensi e apprezzati del XXI secolo. Con The Act of Killing e The Look of Silence ha ridefinito il cinema politico, portando alla luce atrocità nascoste e suscitando reazioni da parte dei governi, guadagnandosi così due nomination agli Oscar. Con una svolta sorprendente, ora presenta The End. Ambientato in un bunker di lusso, decenni dopo il crollo della civiltà, il film racconta la storia di una famiglia aggrappata a una fragile illusione. Swinton e Shannon interpretano “Madre” e “Padre”, affiancati da George MacKay nei panni del figlio e da Moses Ingram come outsider che sconvolge la loro realtà. Questa non è la solita distopia: gli ambienti sono eleganti, l’illuminazione impeccabile e i numeri musicali sembrano usciti direttamente dall’età d’oro della MGM. È tutto volutamente assurdo—la famiglia non cerca semplicemente di sopravvivere, ma si esibisce. Le canzoni, composte insieme a Josh Schmidt, si ispirano ai musical hollywoodiani degli anni ’50: melodiche, cariche di sentimento e completamente artificiali. I personaggi cantano di cieli azzurri e futuri luminosi, mentre il mondo esterno è da tempo ormai morto.
Swinton è delicatamente struggente, mentre Shannon trasmette un senso di colpa repressa, e MacKay porta con sé un dubbio ereditato. Ingram, l’outsider, ancorà il film alla realtà: è capace di rimorso e di verità senza recitazione. Lo spettatore non è chiamato a giudicare questi personaggi, ma piuttosto a chiedersi se riesce a scorgere in loro qualche riflesso di sé stesso. Interessante è che il film non vuole essere una satira: The End colpisce profondamente perché sostituisce l’ironia con la sincerità, concentrandosi non sull’apocalisse in sé, ma sul devastante impatto emotivo che creiamo mentendo a noi stessi—mette in luce il modo in cui affrontiamo la colpa, il rimpianto e le bugie che ci raccontiamo per restare a galla.
Il bunker, costruito all’interno di una miniera di sale in Sicilia, è meno un rifugio che una tomba. La scenografa Jette Lehmann gli dona un aspetto onirico, illuminato da una luce soffusa e decorato con murales dipinti. È bello, ed è proprio questa bellezza a renderlo inquietante e profondamente disturbante. Oppenheimer, sempre provocatore, vuole che piangiamo tre volte: una per la bellezza, una per il sentimento condiviso, e infine per il prezzo di tutto questo—le illusioni, la codardia e il rifiuto di cambiare.