MANIFESTO

#64

MUSE TWENTY FANZINE

JEFF WALL

2024.09.13

Interview JÉRÔME SANS

“Il termine cinematografia crea un terreno in cui il tableau e il cinematografico possono interagire. Questi due concetti creano una sorta di spazio sospeso o rarefatto in cui la finzione, il documento, l’artificiale, lo spontaneo, il calcolato, l’accidentale, iniziano a interagire in modi complessi. Preparo meticolosamente ciò che può essere preparato meticolosamente”. – Jeff Wall

Vancouver, June 24th, 2024

 

 

Jeff Wall in conversazione con Jérôme Sans

 

 

Sei nato a Vancouver nel 1946. Com’era il tuo ambiente culturale?
JW     La situazione era buona perché i miei genitori mi hanno sempre incoraggiato nel perseguire il mio interesse per il disegno e per l’arte. Anche Vancouver era piuttosto provinciale, lo era in un modo interessante. Avevo accesso a una biblioteca pubblica molto fornita. La mia scuola aveva un programma ben strutturato per le arti, quindi sono stato in grado di ampliare i miei interessi sin da piccolo. Mio padre era un medico, la nostra famiglia era di classe media e molto convenzionale. Ma certamente non avevano pregiudizi sul fatto che il proprio figlio fosse coinvolto nelle cose che mi interessavano e mi ispiravano.

 

Quando è stato il tuo primo incontro con un’opera d’arte?
JW     Mia madre, in modo modesto, era una collezionista. Da piccolo andavo con lei nelle gallerie dove guardava e comprava i quadri di artisti locali. Inoltre, i miei genitori erano abbonati a pubblicazioni che ogni mese ci inviavano un portfolio delle opere di un artista famoso. Era molto tipico degli anni Cinquanta: ho imparato a conoscere Pierre-Paul Rubens, Édouard Manet, Pieter Bruegel o Michelangelo. Sono venuto a conoscenza di opere d’arte famose attraverso riproduzioni, così come opere meno famose ma piuttosto buone, sia a casa mia che nella galleria d’arte locale. Vancouver non era affatto un luogo isolato e arretrato.

 

È interessante perché anche io ho conosciuto la storia dell’arte attraverso lo stesso tipo di riviste che ricevevo ogni settimana. Dopo un po’, hanno creato una sorta di enciclopedia.
JW     Sì, esattamente.

 

Sei considerato il fondatore della staged photography. Cosa ne pensi di questa definizione e come descriveresti tu stesso la tua pratica?
JW     Non mi piace molto il termine staged, perché rimanda al palcoscenico, che suggerisce il teatro, e che a sua volta si ricollega a un’istituzione familiare e stabilita. Non uso questo termine, anche se capisco perché le persone lo facciano. A un certo punto degli anni Ottanta ho iniziato a chiamare ciò che faccio cinematografico perché attinge più al tipo di fotografia praticata durante la realizzazione di un film. Se abbiamo bisogno di un modello per il mio approccio, la cinematografia è il riferimento migliore. Penso che la fotografia possa essere praticata in un modo che includa aspetti di artificio, collaborazione o preparazione. Questi elementi prima erano più comunemente identificati con le immagini commerciali e la moda, e meno con il cinema. Nel periodo in cui ho iniziato a interessarmi alla fotografia, il canone artistico si basava sul reportage e sulla tradizione documentaristica: ho sempre ammirato ciò, ma a un certo punto l’ho trovato troppo restrittivo per i miei impulsi. Mi sono interessato ai modi in cui la fotografia poteva interagire in cose che sembravano essere monopolizzate dalla pittura e dal cinema. Non vedevo alcuna ragione per cui quelle cose dovessero essere escluse almeno dalle possibilità di un’opera fotografica. Questo non significava che avessi obiezioni agli estetismi del reportage, perché non ne ho, ho solo pensato all’epoca che la fotografia avesse capacità o potenziali che non erano stati realizzati nel contesto di ciò che Henri Cartier-Bresson e Walker Evans avevano definito. Loro lo avevano fatto così perfettamente che, quando sono arrivato io, non c’era molto di nuovo da fare lungo quelle linee.

Jeff Wall, A man with a rifle, 2000.
Opening image: Jeff Wall portrait. © White Cube (Theo Christelis)
Jeff Wall, After ̒Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue, 1999-2001.

Hai iniziato a lavorare negli anni Settanta, nel fiore dell’arte concettuale. Hai scritto anche un saggio sull’arte concettuale e la fotografia, Marks of Indifference: Aspects of Photography in, or as, Conceptual Art (1995). Come ha influenzato questo movimento la tua pratica? Consideri il tuo lavoro concettuale?

JW     No, ma sono maturato come artista in quell’epoca. Ho fatto la cosiddetta arte concettuale per un po’ alla fine degli anni Sessanta e fino
ai primi anni Settanta. Dipingevo sin da bambino, e cercavo di trovare la mia strada come pittore quando ero ancora piuttosto giovane. Intorno
al 1965 ho vissuto l’esplosione delle nuove arti concettuali, post-studio. Ho iniziato a incontrare alcuni altri giovani artisti che sapevano anche cosa stava accadendo a New York, Londra e Parigi negli anni Sessanta. Questo ha cambiato la mia direzione in modo piuttosto deciso intorno al 1967- 68, perché ero giovane e volevo essere al passo con i tempi: sono stato molto influenzato da persone come Robert Smithson, Dan Graham, Joseph Kosuth, Lawrence Weiner. Ho poi iniziato a rimettere in discussione tutto ciò negli anni successivi. Sono andato a Londra a studiare e ho avuto alcuni contatti fugaci con persone come quelle del collettivo Art and Language, e ho attraversato un processo di riflessione su cosa significasse l’arte concettuale nel suo complesso. L’ho fatto in modo piuttosto serio, ma poi ho iniziato lentamente ad allontanarmi da tutto ciò e ho sviluppato le mie teorie personali. Ero parte della reazione contro l’arte concettuale in una certa misura, anche se non la considero reazionaria in senso politico. Era una reazione alle limitazioni che vedevo emergere dai suoi presupposti.

 

Sei un artista con un forte background teorico. Hai scritto anche una tesi sul Dadaismo alla fine degli anni Sessanta. Perché proprio questo movimento? Ti sentivi vicino a esso all’epoca?

JW     Non proprio. Era il maggio del ‘68 e tutto ciò portò molte nuove idee, nel bene e nel male. Si tratta di un’eredità molto mista; ma all’epoca era tutto molto eccitante e significativo. I miei pensieri intorno al 1966-67 erano concentrati sulle connessioni che le nuove avanguardie stavano creando con quelle degli anni Venti. Come molte persone, ero intrigato dalla rinascita di idee radicali sull’arte, la cultura e la società che circolavano nuovamente nel periodo del Dada e dell’Ottobre, e concentrato in gran parte intorno a Duchamp. Sono sempre stato uno studioso e mi piaceva leggere degli artisti nella storia dell’arte, e lo faccio ancora. Inoltre, per molto tempo ho dovuto insegnare per guadagnarmi da vivere, e questo significava che avevo un contesto e un forum ideali per lavorare sugli aspetti intellettuali dell’arte.

 

Come sei passato progressivamente alla fotografia? Perché hai scelto questo mezzo?

JW     Sono sempre stato a contatto con la fotografia anche durante il periodo in cui dipingevo, in parte perché mio padre possedeva macchine fotografiche molto belle. Era interessato a questo mezzo, anche se non scattava quasi mai foto. Mio padre era così; ero intrigato dalle sue macchine, soprattutto la sua Minox spy camera. Ero inoltre molto affascinato dalla fotografia della rivista Life. Tra i tanti libri che ricevevamo a casa, c’era quello dedicato a The Family of Man, una grande mostra del 1955 curata da Edward Steichen al MoMa di New York. Ammiravo molte di quelle fotografie e in seguito scoprii chi erano i fotografi. L’arte concettuale e i suoi esperimenti mi hanno spinto verso la fotografia in modo più intenso: ho iniziato ad allontanarmi dalla pittura e a sperimentare, piuttosto ingenuamente, con la fotografia concettuale alla fine degli anni Sessanta. Mi sono allontanato dalla pittura entrando in questo nuovo spazio, definito non dalla fotografia classica, ma dal lavoro di Robert Smithson e altri che stavano utilizzando il mezzo in modo diverso. All’inizio li imitavo, con risultati non molto buoni; alcuni venivano esposti, la maggior parte no. Questo ha creato una rottura e mi ha allontanato dall’essere un artista nel mio studio con i miei pennelli. Quando sono andato in Inghilterra, non avevo più uno studio. Mi sono più o meno limitato all’attività accademica per alcuni anni. Quando sono tornato in Canada all’inizio degli anni Settanta e ho trovato lavoro come insegnante, mi sono ritrovato di nuovo in studio, dove mi sono riconnesso con le stesse sensazioni e atteggiamenti di prima. Questo era nell’era del post-studio, come definito da Daniel Buren, un momento importante in cui la relazione dell’artista con qualcosa di apparentemente immutabile come il proprio spazio di lavoro veniva messa in discussione in modo politicamente carico. Intorno al 1974 ho dovuto ripensare tutto ciò, il che mi ha portato alla fotografia in modo diverso da come facevo negli anni ‘60. È allora che cose come il cinema e il mio rapporto con la mia pittura del passato mi sono apparse in un modo nuovo.

 

 

Leggi l’intervista completa sul numero di settembre, Issue 64.

Jeff Wall, Tattoos and Shadows, 2000.
Jeff Wall, A woman with a necklace, 2021.

White Cube presenterà una mostra personale completa delle opere di Jeff Wall a Bermondsey nell’inverno del 2024.
La mostra sarà inaugurata il 22 novembre e proseguirà fino a gennaio 2025.

Per ulteriori informazioni whitecube.com.

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