Body Mould curated by Maddalena Iodice
Kesewa Aboah, Isabella Benshimol Toro, Inès Michelotto, Paula Parole, Melania Toma, Giuditta Vettese, Paula Zvane
Guts Gallery, London
From November 29th until December 21st, 2024
Al secondo piano di 10 Andre Street, East London, si trova Guts Gallery, uno spazio white-cube dal carattere industriale. Oltre lo spazio espositivo principale, sulla destra, una stanza più intima ospita Body Mould. La mostra, curata dalla scrittrice e curatrice italiana Maddalena Iodice, affronta i tabù legati al corpo e offre una prospettiva senza filtri sul corpo e i suoi “stampi”.
“Anch’io trabocco; i miei desideri hanno inventato nuovi desideri, il mio corpo conosce canti inauditi”, si legge nel testo della mostra, citando la critica femminista francese Hélène Cixous. Questo pensiero guida l’intera esposizione: un’indagine intima, universale e coraggiosa sull’esperienza corporea, plasmata da sensibilità femminili. Body Mould presenta sette artiste internazionali – Kesewa Aboah, Isabella Benshimol Toro, Inès Michelotto, Paula Parole, Melania Toma, Giuditta Vettese e Paula Zvane, nate tra il 1992 e il 1998 – che sfidano le aspettative sociali su cosa dovrebbe essere un corpo: il loro, il nostro, il tuo, il mio.
“Il mio corpo vuole scoprirsi. Il mondo non vuole vedermi, vuole cancellarmi, vuole zittirmi. Ma io farò del mio meglio per essere più forte, più bella e più felice possibile: tutti devono vedere il mio corpo!”
“Il bisogno di non avere senso, ma semplicemente di essere.”
Qui, i corpi si celano e si rivelano, si intrecciano e si fratturano, sempre attraverso sfumature distinte. Isabella Benshimol Toro, nata in Venezuela e residente a Londra, evoca una presenza spettrale attraverso gesti domestici intimi. Un indumento bianco, apparentemente abbandonato in movimento su un divano di pelle nera, è congelato dalla resina. Queste tracce quotidiane si trasformato in reperti fossilizzati, sospesi tra il familiare e l’inquietante. Se Benshimol Toro allude all’assenza, Kesewa Aboah ci pone di fronte a una presenza dirompente. La sua opera Loins (2024) cattura l’impatto fisico di un corpo sulla carta, creando ombre pesanti che si riflettono come specchi. Il titolo sottolinea la fisicità grezza dell’opera, rievocando la natura viscerale e sensuale della carne.
L’erotismo raffinato di Aboah si trasforma in ironia con Unhook Me (2024) di Paula Parole. Una scena incorniciata da calze a rete si apre su una schiena segnata da un neo e una fila di ganci di reggiseno: una narrazione intima e al contempo comica. Parole esplora le fasi goffe della trasformazione corporea – osservare il proprio corpo cambiare, sperando che rispecchi ideali irraggiungibili, sentendosi costantemente fuori luogo. Con una teatralità disarmante, mette in scena le transizioni disarticolate del corpo: in mutamento, ribelle, in crescita, ma mai completamente adattato. Anche nell’autoritratto dell’artista italiana Inès Michelotto troviamo trasformazione. Il suo corpo si impone allo spettatore, senza vergogna. È carne tra carne – cresciuta, plasmata, rigenerata e infine accettata. Il corpo di Michelotto non è solo un involucro, ma un riflesso di resilienza interiore e libertà conquistata.
“Il mio corpo sussurra la verità della trasformazione: il disordine, la confusione e la vulnerabilità del cambiamento. Porta i segni di questa trasformazione – le cicatrici, le tracce e le lotte – ma racchiude anche resilienza, tenerezza e forza, qualità che il mondo troppo spesso ignora.”
“Libertà. Voglio sentirla nel mio studio e nel mio lavoro, e desidero che chiunque entri nel mio spazio e partecipi alla mia pratica la percepisca altrettanto.”
“Credo che ciò che il corpo sussurra sia il suo essere il mezzo primordiale della soggettività. È un canale per la passione, l’intuizione e il sentire – elementi che il mondo spesso cerca di mettere a tacere in favore della logica e dell’ordine. Il corpo è un portale che ci invita a sperimentare il mondo non attraverso la razionalità, ma tramite l’esperienza diretta e incarnata.”
Elementi primordiali e spirituali attraversano le opere di Melania Toma e Giuditta Vettese, che usano il corpo come ponte verso la terra. Le forme fluide e vibranti di Toma raccontano storie di identità soggettive, intrecciandosi con questioni di genere, ecologia e vita domestica. Le sue opere trans-morfiche superano i confini geografici e culturali, incarnando il potere trasformativo della cura e della guarigione. Al contrario, Vettese esplora l’interiorità del corpo con un’astrazione viscerale: acquerelli dalle tonalità rosse richiamano ritratti anatomici, riflessi nostalgici dei nostri paesaggi interiori. Al centro della stanza, una sua scultura in bronzo forma ciò che la curatrice Maddalena Iodice descrive come un “altare pagano”, uno spazio per canalizzare e manifestare le energie che plasmano e guidano le nostre forme fisiche.
Tra il primordiale e il futuristico, l’artista lettone Paula Zvane si concentra sui capelli. La sua opera Hair Lace (2024) trasforma fibre organiche in ricami solidificati, creando una mappa intricata e fibrosa dell’identità – un’estensione del corpo.
Body Mould sfida e ridefinisce cosa significhi abitare un corpo. Attraverso le opere di queste sette artiste, la mostra supera ogni confine, smantella le convenzioni e invita a chiedersi: cosa ci sussurra il corpo che il mondo insiste a zittire?
“Il mio corpo sussurra un richiamo a trascendere l’umano e abbracciare il primordiale, a connettersi con ciò che esiste oltre i confini umani. Parla di un desiderio profondo, animalesco, di appartenere a qualcosa di più grande: un impulso a fondersi con il mondo naturale, a vivere e accogliere l’ignoto, il selvaggio.”
“Il mio corpo parla attraverso le sue superfici – le texture, le sensazioni che si percepiscono più che si articolano. Il mondo può ignorare queste forme sottili di espressione, ma il mio corpo insiste nel farsi comprendere attraverso il tatto, attraverso ciò che è tangibile e immediato. Si tratta di connettersi a un livello più profondo, sensoriale.”